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La sconfitta di Adua

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La battaglia di Adua ebbe luogo durante la guerra di Abissinia, il I° marzo 1896, tra le forze italiane, comandate dal tenente generale Oreste Barattieri, e l'esercito abissino del negus Menelik II. Gli italiani subirono una pesante sconfitta, in una guerra aggressiva che causò oltre seimila morti e sollevò in Italia lunghi dibattiti parlamentari.
Una volta placata l’indignazione e spariti dalla scena politica i maggiori responsabili della catastrofe, rimase nella fantasia degli italiani un’immagine dell’Abissinia tetra, minacciosa, che si unì al sentimento di rancore e di disprezzo sui quali, più tardi, fece leva il nuovo imperialismo per fabbricare i suoi miti e il fascismo per preparare le sue imprese coloniali.

Stralci tratti da: “ Storia degli italiani in Africa Orientale”.

A scoprire il vero volto dell’Abissinia sono i 1.900 italiani che il I° marzo vennero fatti prigionieri sul campo di battaglia e poi trascinati verso lo Scioa. Qualcuno di loro rilascia testimonianze che narrano delle sofferenze patite durante la marcia in preda all’angoscia, stremati per la tensione o per le ferite.
Assistono a spettacoli di inaudita violenza, a pratiche barbare. Per qualche ora, mentre ancora da qualche parte si combatte uomini e donne sfogano il loro odio contro il nemico invasore. Tutta la furia però, si attutisce non appena cessano le fucilate ed è allora che il barbaro ridiventa “umano” e riscopre la tolleranza e la pietà.
“ Io cammino e cado, cado e cammino” è la testimonianza di uno dei prigionieri italiani, milanese “ un vecchio galla,  dalle spalle ricoperte da una pelle di leopardo, bianco di capelli e di barba, paziente,  perché non mi uccide, con una bacchetta di fucile in mano mi rialza per la centesima volta”.
Un altro invece, è più fortunato poiché ottiene di essere slegato e addirittura di cavalcare un muletto. “ A quell’Amhara dai tratti del volto durissimi, “ scrive “ palpitava nel petto un cuore di soldato, e quel cuore si andava manifestando a mano a mano che cessava l’eccitamento dello scontro. Diventava sempre più umano con me e nonostante io mantenessi sempre un contegno sprezzante e sostenuto, ottenni una coperta di lana e un astuccio da toilette”.
La lunga marcia dei prigionieri verso lo Scioa dura più di due mesi e si conclude per la maggioranza, il 22 maggio ad Addis Abeba.
“ Fu una sofferenza inaudita” annota un’altra testimonianza “ ma se i bianchi piansero, i neri non risero”. Lo sterminato esercito ripercorre regioni già sottoposte alle più spietate requisizioni ed è quasi impossibile spremere ancora. Anche i depositi che Menelik aveva fatto costruire per l’offensiva d’ottobre erano vuoti, ed infine, l’esercito di affamati deve respingere gli assalti degli Azebò-Galla, predoni che non riconoscono alcuna autorità.”
È stato scritto che Menelik abbia perso più uomini in questa marcia del ritorno che sul campo di Adua. Gli italiani, per quanto in gran parte feriti, riescono a raggiungere lo Scioa perdendo soltanto, secondo le stime dell’epoca, sessanta uomini.
Tutti i testimoni che hanno accettato di raccontare la loro storia, concordano nel riconoscere che queste perdite al minimo, questo miracolo, è dovuto, più che alla fibra dei prigionieri e alla loro arte di arrangiarsi, alla pietà e alla carità delle popolazioni etiopi.
“Fatte le somme, ” ricordano “ tolti i terribili disagi di cui gli scioani non erano responsabili, i prigionieri italiani furono moralmente trattati in Etiopia, molto più umanamente di quanto si potesse credere o pensare prima di aver conosciuto quel popolo da vicino”.
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