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Dai miei racconti del mistero

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Nel racconto che si legge (o che spero si sia a suo tempo letto) più sotto...rivisitando i miei vecchi lavori, prendendo spunto dalla modifica titolo argomento, mi accorgo di averlo inviato senza il titolo originale: 
"Passi dietro la porta"...
 Dai miei racconti del mistero Porta-chiusa 
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La mano gli tremava, tanto da non riuscire a infilare la chiave nella serratura. S’impose di calmarsi, serrando le mascelle e stringendo i denti. Per l’ennesima volta si girò per guardare oltre le spalle: nessuno! Non c’era proprio nessuno che lo seguiva. E allora cos’era quel sentore di pericolo che alleggiava intorno  a lui?
 Durante la notte si era svegliato più volte di soprassalto, con la sensazione di essere spiato dal buio. Forse stava sognando, o forse no, ma il malessere che gli causava quella sensazione gli artigliava il petto con forza.
Aveva accolto l’arrivo del mattino con sollievo e con un unico desiderio in testa: allontanarsi il più possibile dalle pareti di casa, per sfuggire all’oppressione che gli causavano.
La sua era una bella casa, almeno lo era stata ai suoi tempi, quando l’avevano costruita, una delle più belle del paese e lui l’aveva sempre amata, come prima di lui e dei suoi genitori, i nonni. Grande, con tante stanze, soffitti alti e ampie vetrate, circondata da un vasto giardino, i cui alberi, altissimi, si levavano a sfiorare le finestre dell’ultimo piano.
La sua vita fra quelle mura era stata pienamente felice. Una vita agiata colma di soddisfazioni. Prima che la moglie gli fosse strappata dalla malattia e i figli lo lasciassero solo.
Non avevano voluto saperne di continuare a vivere nella grande casa dopo il matrimonio.
Al piccolo paese  immerso tra i campi di granoturco, tanto estesi da perdersi a vista d’occhio, avevano preferito la città, dove si erano stabiliti con le loro nuove famiglie.
Lui era rimasto, aggrappato ai ricordi che la sua amata casa custodiva.  
Ora, senza riuscire a spiegarsene la ragione, tra quelle mura si sentiva soffocare, come se le pareti, a poco a poco, si stessero riducendo intorno a lui. La trovava cambiata, ingrigita, quasi sfatta. In apparenza privata della sua bellezza originaria.
Usciva ogni mattina, fuggendo da qualcosa che, pur costatandone la presenza, non poteva vedere. Una presenza silenziosa, strisciante. Agghiacciante.
E la casa sembrava restringersi sempre più.  
Dentro si muoveva a fatica, sbattendo contro i mobili o contro gli stipiti delle porte, anch’esse divenute, incredibilmente, troppo strette perché lui potesse oltrepassarle agevolmente.
Era quasi sera e stava rientrando di malavoglia, giusto per preparare la cena. Aveva camminato a lungo per la campagna, traendo beneficio dallo spazio aperto dei campi che si perdevano lontani, regalandogli sensazioni di totale libertà.
Ritornando verso casa, si era fermato nel piccolo supermercato del paese, per un minimo di spesa. Poche cose da acquistare: la fettina di vitello, il pane, un vasetto di funghi sott’olio, un sacchetto di patatine da sgranocchiare davanti al televisore.
Non che trovasse mai qualcosa d’interessante da vedere, ma almeno lo aiutava a farlo sentire meno solo, e la noia dei programmi gli conciliava il sonno.
Era quasi arrivato alla cassa, con il cestello della spesa e il portafoglio tra le mani, quando avvertì improvvisamente, un brivido percorrergli la spina dorsale.
Era stata la voce udita alle sue spalle a procurarglielo. La stessa voce che bisbigliava parole senza senso durante i suoi incubi notturni.  Sussurri che si protraevano a volte per buona parte della notte, per poi dissolversi alle prime luci dell’alba.
Si girò lentamente, quasi paralizzato dalla paura.
Chi? Chi mai poteva perseguitarlo anche di giorno? Tra la gente?
Alle sue spalle c’era un’anziana signora e poco più distante, non completamente visibile, il contorno di una figura indefinita. 
Pagò e uscì frettolosamente, timoroso di riascoltare la voce che lo perseguitava.
Era giunto a casa affannato e faticava persino ad aprire la porta. Per poco la chiave non gli era sfuggita dalle mani.
Finalmente riuscì a sbloccare la serratura, spalancò la porta e con un gemito si affrettò a entrare. Appena dentro la sbarrò con il chiavistello.  
La casa gli sembrò ancora più piccola di quando era uscito, ma forse era soltanto la sua impressione, dovuta all’ansia accumulata.
Andò subito in cucina, prese la bistecchiera e la posò sul fornello. Mentre attendeva che si scaldasse si avvicinò ai vetri della finestra per scrutare fuori.  Si stupì che il buio fosse calato all’improvviso. Un soffio leggero di vento agitava i rami degli alberi e le foglie frusciavano contro i muri, mentre le stanze, all’ultimo piano, si riempivano di scricchiolii. Cercò di ignorarli e si dedicò a preparare la tavola, mentre la carne arrostiva sulla griglia cosparsa di rosmarino e foglie di salvia.
Accese il televisore, per non sentirli e non farsi prendere dall’agitazione. La solitudine gli pesava come non mai. Odiava sentirsi così, estraneo nella sua stessa casa, pavido, incapace di reagire al decadimento che lo stava portando alla paranoia più completa.
Si trovava ai limiti di uno stretto passaggio, oltrepassando il quale, non avrebbe avuto abbastanza autocontrollo per gestire la sua vita.
Seduto a tavola, guardava la bistecca nel piatto con una sorta di rancore. Se non fosse entrato nel negozio per acquistarla e fosse ritornato direttamente a casa, ora non sarebbe stato tanto agitato. Affondò la forchetta nella carne con rabbia, come se stesse infilzando il suo invisibile persecutore, la fece a pezzi masticandola voracemente, senza quasi sentirne il sapore.
Alla fine allontanò il piatto con disgusto.
La voce gracchiava molesta dal televisore. La conduttrice del programma, un talk show particolarmente animato, non si faceva scrupolo di provocare i partecipanti e spingerli a scontrarsi gli uni contro gli altri, aggressivi e insolenti. Trovò assai irritante lo spettacolo di quel gruppo di uomini e donne urlanti.  Si domandò, un attimo prima di spegnere il televisore, come si potessero ideare simili spettacoli.
Uscì dalla cucina, senza preoccuparsi di riordinare, di liberare il tavolo dai resti della frugale cena. La sua smania maniacale dell’ordine si era alquanto moderata. Non gliene importava più, di lucidare, pulire, strofinare.
In un primo tempo, quando era rimasto solo ad abitare nella grande casa, quelle occupazioni lo avevano aiutato a superare il senso di abbandono in cui era precipitato. Ora si limitava a svolgere le mansioni strettamente indispensabili, e, pure quelle con grande fastidio.
Salì al piano superiore. Entrò nella stanza e la vista del letto, rimasto sfatto dal mattino, gli causò un momento di panico. Sapeva che, nel momento in cui vi si fosse coricato, sarebbero ricominciati i sogni inquietanti. Come avrebbe potuto evitarlo? In nessun modo. Era in balia dei suoi incubi, delle sue paure, della sua desolazione.
I colpi lo svegliarono nel pieno della notte. A dispetto dei suoi timori, era riuscito ad addormentarsi quasi subito. Un sonno tranquillo, privo di sogni. Almeno così credeva, non ricordandone alcuno.
Si levò a sedere smarrito. La stanza era immersa nel buio, nessuna luce filtrava dalla finestra.
I colpi si susseguivano a intervalli regolari, causandogli dolorose trafitture.
Non osava quasi respirare. Un bruciore intenso dilagava nel suo petto.
E poi la voce, profonda, cavernosa, echeggiò dietro la porta.
La solita voce. Ancora.
“Chi è?”Trovò la forza di mormorare. Avrebbe voluto abbandonarsi al pianto, ma gli occhi rimanevano stranamente asciutti.
“ Lo sai, chi sono.” Rispose la voce attraverso la porta socchiusa.
Lo sgomento s’impossessò di lui. “ No, che non lo so!” avrebbe voluto gridare, senza riuscirci.
“ Che cosa vuoi da me?” Chiese invece con un filo di voce.
“Per ora, niente. Sappi solo che sono qui.”
Poi udì i passi dietro la porta. Passi che si allontanavano.
Si riadagiò sui cuscini, madido di sudore, svuotato di ogni energia, con la mente stravolta.
Rimase per il resto della notte con gli occhi sbarrati sul buio, sopraffatto da un oscuro presagio imperscrutabile. In balia della pietà che provava verso se stesso.
 La solitudine lo attanagliava. Dov’erano finiti tutti? Tutti quelli che aveva amato. Che lo avevano amato. Lo avevano lasciato solo, desolatamente, disperatamente solo. 
Il passato era alle sue spalle, immerso nella foschia del tempo, e il futuro? Forse non esisteva. Era sospeso fra tralicci invalicabili e dirupi scoscesi, che lui non avrebbe avuto la forza di affrontare.
Il presente? Sfumava a poco a poco anch’esso nel passato e ogni attimo lo trasportava verso il futuro che non avrebbe avuto. Che lui forse, non desiderava. Non più.
Per lui c’era solo chi lo attendeva oltre quella porta.
Paziente. 
 
Dai miei racconti del mistero Images?q=tbn:ANd9GcSracIcr1bS5a4Ocz7UQtJA4KXRFGJRex2DPknw5QK5ju02q-RWlMN00gM  ANNALI 22/7/ 2009
 
     
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