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Dai miei racconti del mistero...

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Dai miei racconti del mistero... - Pagina 2 Empty DAI MIEI RACCONTI DEL MISTERO :L'ULTIMO GUARDIANO.

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Dai miei racconti del mistero... - Pagina 2 Nostalgia
 
Affacciata alla scogliera, guardava il mare precipitarsi in alte volute di spuma bianca contro gli scogli. Le onde battevano le rocce con fragore, sollevando spruzzi irregolari. Una candida trina serpeggiante affiorava a tratti sulla sabbia dopo la risacca.
Le nubi, minacciose, nere, gonfie di pioggia, formavano una spessa coltre sopra la distesa d’acqua rumoreggiante.
I richiami che le giungevano dal basso concitati la lasciavano indifferente. Non riusciva a distogliere lo sguardo dal tumulto delle onde.
Era sicura di averlo visto. Affiorava a tratti, tra brevi lampi di luce, quasi volando sopra i flutti come un surfista, con le braccia tese verso di lei, per sparire subito dopo inghiottito dal tumulto ondoso.
Si sporse pericolosamente oltre le rocce proprio mentre un’onda gigantesca si levava fin su, sopra al promontorio, spruzzandola di acqua gelida. Allora si ritrasse rabbrividendo.
La figura era sparita, risucchiata dai flutti o forse gettata dagli stessi a riva, a ridosso della parete rocciosa e nascosta alla sua vista.
Le prime gocce di pioggia la costrinsero a ridiscendere la ripida scarpata. La sferza del vento, che piegava i cespugli spinosi disseminati lungo il sentiero, le scompigliava i lunghi capelli biondi. Le strappò il leggero foulard di seta azzurro, che non riuscì a trattenere e scivolò dal collo volteggiando lontano, verso un groviglio di rovi dove rimase impigliato.  
Continuava a pensare a ciò che aveva visto, o creduto di aver visto, tra le onde scure che si agitavano senza posa sotto il suo sguardo turbato. Era in preda ad una strana sensazione, a qualcosa di indefinito che non sapeva spiegarsi. Attimi sconnessi e mischiati tra presente e passato. Come se la sua mente rievocasse momenti già vissuti.
Vide Maurizio correrle incontro lungo il sentiero gridando e gesticolando nervosamente, mentre la pioggia, che aveva preso a scrosciare con violenza, creava quasi una cortina impenetrabile intorno a loro. La raggiunse e la afferrò saldamente per un braccio, sostenendola per impedirle di scivolare sui ciottoli sporgenti.
Raggiunsero gli altri, rifugiati sotto uno spuntone di roccia, una specie d’incavo abbastanza profondo da ripararli. Alice e Gianni, essendosi messi al coperto sin dalle prime avvisaglie di pioggia,  accolsero gli amici arrivati fradici.  Li aiutarono  a togliersi le felpe inzuppate e indossare caldi maglioni sotto le giacche impermeabili.
Giada  attorcigliò tra le dita i lunghi capelli, torcendoli  e strizzandoli per farne uscire l’acqua di cui erano intrisi, poi scosse la testa facendoli ondeggiare.
Il malumore di Maurizio era alle stelle: “ Perché caspita sei rimasta lassù tutto quel tempo immobile? Non sentivi i miei richiami?”
Giada  lo guardò mortificata: “ Scusami. Hai ragione a essere in collera con me.” Tacque un attimo, per decidere se fosse il caso di spiegare ciò che aveva visto. Magari avrebbero riso e le avrebbero dato della visionaria, come facevano spesso quando lei parlava delle strane immagini che affioravano dalla sua mente senza un motivo specifico.
“Ho visto uomo, laggiù, tra le onde.” Buttò fuori tutto d’un fiato.
“ Un uomo?” chiesero stupiti quasi simultaneamente “ Come può essere ? Con un tempo così nemmeno un pazzo sarebbe entrato in acqua!”
Tuttavia si misero a scrutare inquieti lo spazio davanti a loro, cercando di attraversare con lo sguardo la fitta cortina di pioggia che cadeva con rumore assordante. In fondo, nemmeno loro avevano dato ascolto a chi li sconsigliava di salire alla scogliera con un tempo simile.  
Poi furono troppo preoccupati per loro stessi per pensare all’eventualità di un intervento di soccorso. Non c’era assolutamente niente che avrebbero potuto fare.
Rispetto al terreno circostante si trovavano in una specie di conca, formata da un dislivello di almeno dieci centimetri.  L’acqua si riversava dentro con forza, ricoprendo completamente le loro calzature e inzuppando i pantaloni fin sopra le caviglie.
Fortunatamente, avevano radunato per tempo tutte le loro cose che ora si trovavano al sicuro e all’asciutto, riposte  negli zaini che portavano sulle spalle. Cercarono, a più riprese, senza peraltro riuscirci,  di contattare con il cellulare l’hotel dove alloggiavano, ma niente, non c’era modo di comunicare. Potevano solo sperare che il diluvio cessasse.
Guardarono sconsolati l’acquitrino melmoso che si estendeva davanti a loro.
“ Ei! Su col morale gente!” Gianni tentò di scherzare con una delle sue solite battute, ma fu interrotto dal rombo di un tuono, tanto potente da far tremare la parete di granito alle loro spalle. Il boato, seguito immediatamente dalla luce accecante, attraversò lo spazio sopra di loro, spegnendosi  poco lontano con  fragore assordante. Il fulmine li aveva mancati per un soffio, finendo sul crostone di roccia ai piedi della scogliera  frantumandola in buona parte. La potenza dell’impatto provocò un’intensa vibrazione nel terreno, seguita dallo smottamento dei detriti che scendeva lungo il breve pendio.  Ormai lo spuntone di roccia non offriva che un debole riparo. Era troppo stretto perché impedisse alla pioggia, che ora cadeva ancora più intensamente, di irrompere nello spazio angusto.
Giada fu la prima a sentirlo: “Cos’è?” Gridò con spavento.
“Cos’è cosa?” Urlò Maurizio allarmato.
“Questo rimbombo. Non sentite?”
“ Certo che sentiamo. C’è ancora un temporale in corso.” S’intromise Alice con sarcasmo.
“No, non quello, questo.” insistette Giada appoggiando le mani alla parete rocciosa.
Si ritrovarono tutti e quattro a fissare le crepe che andavano espandendosi rapidamente davanti ai loro occhi. Dalle fenditure l’acqua aveva iniziato a scorrere, sgretolando la roccia. Il riparo si stava riducendo sempre più. Erano in balia della pioggia che imperversava da ogni parte intorno a loro.
Giada, la più vicina alla parete sgretolata, fu la prima a intuire che, dentro le spaccature, si agitava un torrente turbolento e minaccioso. Sentì il terreno smuoversi sotto i piedi e lanciò un altro grido di avvertimento.
“ Dobbiamo andarcene! Sta per succedere qualcosa!”
“ Andarcene? E dove?Guardati intorno: non vedo altri ripari.” Maurizio allargò le braccia con un gesto spazientito.
Ma Giada non l’ascoltava più. Il cupo brontolio avvertito poco prima si era fatto  più vicino, fino ad esplodere con violenza in un getto dirompente di acqua fangosa. Il gruppo dei ragazzi fu investito e scagliato a terra, in un groviglio di braccia e gambe.
Poi tutto divenne una serie incontrollata di movimenti affannosi, nel disperato tentativo di trovare appigli cui rimanere aggrappati e non cadere nella spaccatura creatasi sotto di loro.
Giada riuscì a infilare le dita in una crepa, cercando di  resistere alla tremenda forza che cercava di risucchiarla dentro il vortice. Aveva  i muscoli doloranti, ma si teneva strettamente al precario appiglio.  Alla fine, però, le sue mani persero la presa e lei cadde nel gorgo tumultuoso con un  grido che si disperse nell’ eco dentro la volta buia.  Lottò per risalire in superficie e mantenere la testa fuori dall’acqua, ma il giaccone pesante che indossava le impediva i movimenti e l’attirava inesorabilmente verso il fondo. Con una serie di contorsioni se ne liberò, cercando di resistere al freddo che le procurava un’intensa sofferenza.
Il flusso impetuoso la trascinava velocemente,  sbattendola qua e là come un fuscello, sempre più lontano dal luogo dove era caduta. L’acqua le entrava a fiotti nella gola e lei tossiva e sputava convulsamente, avvolta dal buio spaventoso, in preda al terrore.
Con le membra intorpidite cercava disperatamente di mantenersi a galla, di resistere ai gorghi che a tratti la trascinavano sottacqua. Durante quei lunghi istanti, con i polmoni che minacciavano di scoppiare, era certa che sarebbe morta, ma poi, scalciando disordinatamente e agitando le braccia, riusciva a risalire in superficie.
Respirando affannosamente, tendeva le braccia in ogni direzione, nel tentativo di trovare un qualsiasi appiglio che frenasse la sua corsa, dove rimanere aggrappata nell’attesa dei soccorsi. Più volte era riuscita nell’intento di afferrarsi alle sporgenze rocciose, ma ogni volta l’acqua la strappava  a forza dal precario sostegno, come fosse una cosa viva  animata dalla volontà di sopraffarla.
Si domandava quanto avrebbe potuto resistere, con i sintomi dell’ipotermia sempre più evidenti. L’istinto di sopravvivenza si stava indebolendo: perché non lasciarsi andare? Lottare sarebbe servito solo a prolungare l’agonia.
Smise di agitarsi e si lasciò trasportare come un tronco alla deriva, riversa sul dorso con le braccia allargate. Chiuse gli occhi e si preparò ad arrendersi alla gelida morsa dell’acqua.
Nemmeno una preghiera le salì alle labbra, non riusciva a ricordarne nessuna.
Poi, all’improvviso, qualcosa cambiò. Il flusso si era fatto meno impetuoso, scorreva piano sotto di lei che riaprì gli occhi sorpresa. Il buio aveva lasciato il posto a una tenue inflorescenza proveniente dalla volta rocciosa.
Sfinita e quasi senza più forze, cercava di ignorare il torpore e il senso di abbandono che aveva rischiato di annullare la sua volontà.  
Ora, non  più avvolta dall’oscurità, riusciva a distinguere i contorni lungo le sponde. Le pareti lisce, senza asperità sporgenti, erano anch’esse punteggiate da riflessi fosforescenti. Quei piccoli sprazzi di luce mitigavano il suo terrore.
Le braccia e le gambe erano diventate insensibili, pezzi di ghiaccio ai quali non riusciva più a trasmettere che deboli movimenti.
Il  suo viaggio, dentro quell’angosciante  fiume sotterraneo, prese ad un tratto una svolta assolutamente inattesa. Davanti a lei, la volta cavernosa di spesso granito, scendeva verso il basso, dentro l’acqua, deviandone il corso sotto di essa.
Ebbe solo il tempo di roteare gli occhi pieni di terrore, prima di scivolare sotto la sporgenza e ripiombare nel buio. La corrente la trascinò dentro la caverna sommersa, avviluppandola nella sua morsa gelida. Aprì le braccia sperando di trovare un appiglio per riemergere, mentre la pressione dentro i timpani aumentava. Strisciò contro la parete frastagliata graffiandosi le mani nel tentativo di afferrarsi alla roccia e tentare di risalire per respirare.  
Riuscì a resistere ancora  per brevissimo tempo a  trattenere il respiro, poi, con i polmoni in fiamme, si arrese e spalancò la bocca alla disperata ricerca di ossigeno. L’acqua le riempì rapidamente la gola e poi, con un ultimo movimento convulso, affondò nella più totale e assoluta solitudine.

C’era  luce sopra di lei. Non la vedeva ancora perché teneva gli occhi chiusi, però la sentiva. Una luce calda che trapassava la sottile membrana delle palpebre e le riscaldava il viso. A occhi chiusi, prolungava la gioia di sentirsi viva. Il senso di calore che avvertiva, la ripagava della sofferenza patita.
Qualcosa le sfiorò il viso e lei istintivamente alzò la mano in un gesto di difesa. La cosa s’insinuò tra i suoi capelli con un tocco leggero, delicato, molto simile a una carezza. Si sentì invadere da un senso di intensa felicità  e la carezza di quella mano gentile era quanto di più appagante potesse desiderare. Immaginò fosse la mano del suo salvatore, un sub, sicuramente, anche se non riusciva a capire come fosse potuto intervenire in così breve tempo.
Per un attimo, ma solo per un attimo, pensò a Maurizio. No, lui non si sarebbe  buttato a capofitto dietro di lei, in quell’acqua scura e fangosa, non era il tipo. Lui apparteneva al genere di persone che non intraprenderebbe  mai un’azione senza prima valutarne i rischi e la possibilità di ottenerne un beneficio. Un tipo irrazionale si sarebbe buttato senza pensarci, animato soltanto dal desiderio di salvare la sua ragazza, o almeno tentare di farlo,  ma lui, di professione – ragioniere – abituato a confrontarsi in una dimensione fatta di percentuali e di rischi calcolati con la pignoleria appunto, da – ragioniere -, non avrebbe compiuto un gesto tanto avventato.  
La fugace apparizione del surfista intravisto tra i marosi,  là sulla scogliera, le tornò alla memoria. Lui sì, pensò mentre lo rivedeva lottare impavido contro le onde schiumose che gli si avventavano contro.  Lui sarebbe stato il tipo capace di simili gesti.
Non si udivano più i boati dei  tuoni né lo scrosciare della pioggia, quindi dedusse che il temporale fosse passato e che ora fosse tornato a risplendere il sole. Ne avvertiva il calore.
Inspirò ed espirò profondamente, poi  aprì gli occhi e ciò che vide la lasciò senza fiato.
Si sollevò di scatto, spalancando la bocca in un grido che le restò intrappolato dentro la gola. La figura accanto  a lei ritirò la mano con  un moto di sorpresa, scostandosi un poco per non spaventarla ulteriormente. Si rialzò, ergendosi in tutta la sua statura e lei lo guardò con un misto di timore, sconcerto e delusione.
Dunque nessuno l’aveva salvata e la luce intravista non era quella del sole.  Si trovava in un luogo che la mente non riusciva a collocare. Non era sicuramente il Paradiso, perché la solenne figura che la osservava immobile non assomigliava a un Angelo. E non poteva essere  l’Inferno. Non c’erano fuoco e  fiamme. In cuor suo, lei sapeva di non meritare né l’uno, né l’altro. Non era stata abbastanza buona ma nemmeno tanto cattiva. Doveva per forza trattarsi di un luogo intermedio.
Poi i pensieri lucidi smisero di esistere e si sentì avvolgere in una spirale di  paura. Cercò disperatamente di trovare una ragione al perché si trovasse lì, in un luogo che lei  mai avrebbe  immaginato potesse esistere, accanto ad un essere il cui aspetto incuteva timore.  
Si distese nuovamente, e oppressa da una stanchezza infinita chiuse gli occhi e ripiombò nel buio avvolgente e comatoso.
L’enigmatica figura si chinò su di lei, le scostò delicatamente i capelli ancora umidi dal viso e
rimase in paziente attesa del suo risveglio.

Si destò di soprassalto, come succede quando ci si sveglia nel mezzo di un brutto sogno, con il cuore che batte forte e il respiro affannoso, ma per lei il sollievo del risveglio non segnò la fine dell’incubo, perché Lui era ancora lì, accanto a lei.
Le tese la mano per aiutarla a rialzarsi e vedendola vacillare,  la sostenne con delicatezza. Sul suo viso, lucente come oro, comparve l’ombra di un sorriso.
“ Va tutto bene, sei al sicuro, ora.”
Cercò di liberarsi dalla stretta, sia pur gentile, che la strana creatura esercitava su di lei e  Lui, conscio della sua pena,  la lasciò andare, invitandola a seguirlo. La condusse attraverso un sentiero che si addentrava sotto uno stretto arco, cosparso di uno strato di minerale fluorescente.
Giada osservava attenta ciò che la circondava. Camminavano lungo un sentiero dalla lucentezza trasparente, permeato da bagliori dorati. La descrizione di una città, con le “ strade di oro puro, come vetro trasparente”, legato ad un   versetto dell’Apocalisse  le affiorò nella mente, subito ricacciato come qualcosa di assurdo, di illogico
Lui aveva raccolto il suo pensiero ed annuì,  colpito per l’intuizione,  si girò a guardarla  e le sorrise rassicurante. Le toccò lievemente la spalla mentre si addentravano per una serie di cunicoli.  Alla fine entrarono in una vasta caverna e Giada spalancò gli occhi meravigliata per tutto lo splendore che si diffondeva dalla volta  sfavillante di  luci. Ebbe l’impressione di essere entrata nell’ immenso   geode di un minerale iridescente. Vaste zone erano ricoperte  da prismi di quarzo cristallizzati di grande lucentezza, in altre, sottili stalagmiti si innalzavano dritte verso l’alto. Su tutto predominava la luce. Un caldo benessere l’avvolse come un manto, placando la sua ansia e allontanando i suoi timori.
Si sentiva al sicuro, proprio come Lui le aveva detto.  Senza più la paura iniziale, lo guardò, cogliendo il lampo dei suoi occhi verde smeraldo, lo splendore della sua pelle dal colore dell’ambra  e d’istinto gli si avvicinò. C’era qualcosa in lui, o meglio, che “usciva” da lui, che non sapeva spiegarsi. Ma era qualcosa di buono, di rasserenante. Un’aurea di pace.
“ Dovrò restare qui per sempre? ”
“ No, non per sempre. Solo finché non sarà giunto il giorno stabilito.”
La risposta fece riaffiorare in Giada i timori appena placati.
Lui avvertì nella voce della ragazza un vago senso  di incertezza e si sentì invadere dalla pena, “Se pensi di essere stata scelta ti sbagli. Non è così, credimi, io sono solo intervenuto a trarti in salvo, ma non ho causato  l’incidente che ti ha fatto precipitare dentro il tunnel. Ti ho vista là, sulla scogliera e sapevo ciò che sarebbe accaduto. Solo questo.”
“Eri tu?Anch’io ti ho visto. Ma allora è possibile andarsene da qui!”
“No. Non è possibile, come ti ho spiegato, noi dobbiamo rimanere qui, in attesa.”
“In attesa di cosa? Dimmi chi sei. O “cosa” sei.” La voce di Giada si era fatta più sicura ed ora pretendeva delle risposte.
Lui la guardò intensamente, a lungo, come stesse scrutando dentro la sua anima. Doveva giudicare se fosse stata in grado di comprendere, ma soprattutto di accettare,gli eventi che stavano per esserle rivelati. “Io sono il “ Guardiano”.” Si limitò a dire. Non poteva rivelarle nient’altro, non la riteneva pronta, non ancora. Ma meritevole sì. Questo sì.  
Giada strinse gli occhi disorientata. “ Il guardiano di cosa?”La sua domanda non ebbe risposta. Rimase a fissarlo, senza speranza.
Ripresero a camminare, su sentieri trasparenti, attraversati dalla luce che inondava i loro corpi. Da qualche parte si sentiva scorrere l’acqua del fiume sotterraneo. Uno scorrere lento, tranquillo, quasi un sussurro, che si univa all’ansito lieve dei loro respiri.
Alla fine si fermarono davanti ad una grande porta, tutta bianca, traslucida, dai riflessi perlacei. Qui Lui indugiò. Si volse verso Giada e i suoi occhi color smeraldo assunsero una lucentezza liquida. Le sfiorò il viso con un tocco leggero e le passò le dita tra i capelli biondi, fini, morbidi come seta. Le entrò nella mente e i pensieri di lei inondarono il suo cuore. Erano pensieri pieni di fede, di fiducia e di attesa, ma anche di rimpianto. La sua vita era lassù, oltre il fiume dalle acque sussurranti. Non avrebbe voluto rinunciarvi. Piangeva lacrime silenziose.
Allora Lui, spinto dall’impulso che gli saliva dal cuore, decise di attendere. Non poteva lasciarle oltrepassare ora la “Porta”, dove i prescelti erano in attesa. C’era ancora tempo, prima dello squillo dell’ultima tromba. Prima che potessero entrare insieme nella nuova città. La città dove non tutti potevano entrare, ma solamente i meritevoli.
Fissò la bocca di lei, dischiusa in un timido sorriso, e, sebbene conscio della struggente malinconia che avrebbe invaso il suo spirito durante l’attesa,compì per lei un miracolo d’amore . L’avrebbe lasciata tornare, sospesa nel tempo, lassù, affacciata alla scogliera, finché lui,l’ultimo Guardiano, posto a sentinella del mondo arcaico, l’avesse richiamata. E avrebbero percorso insieme l’ampia via “di oro puro, come cristallo trasparente”.
                                                          …….
Affacciata alla scogliera, guardava il mare precipitarsi in alte volute di spuma bianca contro gli scogli. Le onde battevano le rocce con fragore, sollevando spruzzi irregolari. Una candida trina serpeggiante affiorava a tratti sulla sabbia dopo la risacca.
Era sicura di averlo visto. La sua mente sembrava rievocare  momenti già vissuti.
Lui, dal mare, avrebbe continuato a vederla, mentre gli occhi azzurri di lei lo osservavano dall’alto. Entrambi dentro i confini di un cerchio indissolubile.
Per tutto il tempo a venire.
Finché nel cielo fosse risuonato l’ultimo squillo. Dalla tromba del settimo Angelo.
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Si ritrovò smarrita in un deserto di solitudine, con il cuore gonfio di tristezza e si chiese se fosse quella la linea di confine che delimitava il suo tempo. Non ricordava come fosse arrivata lì, né da quando. Forse minuti, o forse ore.
In fondo non le importava neppure di saperlo. Se ne stava seduta sopra un masso, tra i cespugli e gli alberi, vicino alla massicciata della ferrovia, indifferente ai morsi del freddo.
Sussultava ogni volta che gli occhi fosforescenti di un treno squarciavano, improvvisi, il buio della notte.
Era la vigilia di Natale. Il paese, alle sue spalle, con le luci sfavillanti delle luminarie, illividiva la striscia di cielo che lo sovrastava. Dalle finestre delle case, i colorati addobbi degli alberi natalizi ammiccavano intermittenti, in una lenta noiosa pantomima.
Un treno le sfrecciò davanti velocemente, trafiggendola con il suo fischio lacerante. Una miriade di scintille si sprigionò intorno a lei, frammenti di luce intensa e scomposta che la costrinse a socchiudere gli occhi.  
Quando li riaprì, vide una figura emergere dal cerchio luminoso, una figura esile, che si muoveva leggera lungo i binari. Giulia la guardò incerta, senza però provare timore. La desolazione che sentiva dentro di sé aveva sopito ogni reazione emotiva.
Solo quando la figura le fu davanti e la riconobbe, trasalì fortemente impressionata. Era Nadia? Ma Nadia era morta da tantissimo tempo, investita da un treno in corsa proprio su questi binari. Fu una terribile disgrazia, una fine orribile per una ragazzina di soli quindici anni, dolce e gentile.
Abitavano nello stesso casermone di periferia negli anni sessanta. Uno stabile decrepito, quasi disumano nel suo squallore, privo di acqua corrente, popolato da una fauna variegata e multiforme che sbucava da ogni angolo, strisciando o zampettando sui pavimenti sconnessi.
Si ritrovavano dopo i pasti presso la fontana in fondo al cortile, a strusciare, con la pietra pomice, le pentole annerite dall’uso sulla stufa a carbone.
Mentre Giulia si limitava a sfregare il nero superficiale, Nadia strofinava con vigore la sua pentola fino a farla brillare, esibendola poi all’amica tutta soddisfatta dicendole: “ Visto? Non è come nuova? Perché non lo fai anche tu?”
Ma Giulia alzava le spalle rispondendo: “ A che serve? Tanto la mamma la rimette sul fuoco e ridiventa di nuovo tutta nera di fuliggine.”
Nadia insisteva: “ Se la lucidi bene ti sarà più facile pulirla di volta in volta e ti darà soddisfazione. Almeno provaci.”
Sì, sai che soddisfazione! Pensava Giulia. Non capiva proprio perché l’amica tenesse tanto a mantenere lucida la pentola per la zuppa. Povera Nadia! Forse rappresentava qualcosa d’importante che a lei sfuggiva. Specchiarsi nel fondo lucido di una pentola poteva essere un modo per rendere accettabile il grigiore di una vita?
Ormai Giulia non dubitava più che la figura che avanzava fosse proprio lei  e sentì un groppo in gola, un’emozione stupefacente e terrificante insieme. Perché quella ragazzina, o qualunque cosa fosse, si materializzava davanti a lei? Chi o cosa l’aveva evocata? Forse lei, inconsciamente, con il suo dolore?
Non provava alcun timore, eppure avrebbe dovuto: una notte buia, un luogo solitario e tutta quella luce irreale che l’avvolgeva. Ma lei, così piccola, con i lunghi capelli ondeggianti, il viso dal colore lunare, come poteva incutere paura? No, non c’era nulla di pauroso in quella visione.
“ Nadia, sei proprio tu?” chiese con un filo di voce.
“Sì, sono io. Ti ricordi ancora di me?”
“ Certo, sei come ti ricordavo. Non ti ho dimenticato. Ma tu, sai chi sono io?” Era un dialogo ai limiti dell’assurdo, Giulia se ne rese conto,  ma in fondo pensò che ogni cosa doveva avere un senso, specialmente questa, così fantastica  e soprannaturale.
“Sì, lo so chi sei, sei la mia amica. Com’era fredda, vero, l’acqua di quella fontana? Ricordi? E le ore trascorse a chiacchierare sedute sui gradini del portone di casa, fusi dal calore di quelle torride estati? Tu sognavi di fare la cantante, da grande, e di girare il mondo. Io invece sognavo di fare la ballerina classica!” Emise un singulto che forse avrebbe dovuto essere  una risata e Giulia avvertì una stretta al cuore. Il ricordo dei desideri irrealizzati di entrambe le causò un cocente rimpianto.
“ Come mai sei qui?” le chiese.
“ Io sono sempre rimasta qui.  Non sono mai potuta andarmene. Non chiedermi perché, non saprei darti una risposta. Forse non ero preparata a morire, forse non avrei dovuto morire, forse…” la voce le si ruppe e un pianto sommesso inondò l’aria.
Giulia avrebbe voluto abbracciarla ma non osò. Temeva di vederla scomparire e non lo voleva, desiderava che le parlasse ancora, che raccontasse cosa la tratteneva presso quei binari, cosa le impediva di trovare la pace, nel luogo stabilito dalla legge naturale che regola la vita e la morte. Ovunque esso si trovi.
“ Hai sofferto molto?” chiese pentendosi subito della domanda.
“ Sofferto?” rispose Nadia “ Non lo so. Ho sentito un urto tremendo, sono stata proiettata fuori dal mio corpo, dispersa in mille frammenti e imprigionata in un vortice di luci, taglienti come spade. Un attimo e il treno era sparito. Sono rimasta ad aspettare il suo ritorno, aggrappata al desiderio di riprendermi la vita che mi era stata rubata.”. La voce le si spense e un alito di vento vibrò nell’aria.
Grosse lacrime scorrevano sul viso di Giulia, scivolando lentamente sulle mani gelate. Un silenzio impregnato di dolore la circondava. Stava forse sognando? Non lo voleva quel sogno.
Il motivo che l’aveva portata lì, quella notte, le parve insignificante.  Il dolore tangibile che Nadia aveva diffuso con il suo pianto, la invadeva completamente, stemperando l’amarezza e lo sconforto.
Un senso di pietà la sopraffece, una domanda le salì alle labbra: “ Perché quella sera ti sei trovata sui binari mentre arrivava il treno? C’era, e c’è tuttora un sottopassaggio, era da lì che avresti dovuto passare per superare la ferrovia.”
“ A quell’ora non avrebbe dovuto transitare nessun treno. Conoscevo a memoria tutti gli orari ed ero sicura di poter attraversare senza pericolo le rotaie. Lo facevo ogni sera per andare da mia sorella Anna.” Rispose Nadia quasi in tono di scusa “ Il treno non avrebbe proprio dovuto esserci!” Riprese a singhiozzare piano e Giulia si rammaricò di averle posto la domanda. Però era vero, ricordava perché Nadia era stata travolta da quel treno, all’epoca della disgrazia se ne parlò: un banale incidente aveva ritardato la sua partenza dalla stazione di venti minuti. Venti minuti: la differenza tra la vita e la morte, uno spazio di tempo brevissimo. Paragonato all’arco di una vita, era meno di un battito di ciglia, sospeso e vagante tra gli ingranaggi fluttuanti dell’orologio del destino. Il destino che, spesso, riesce a sorprendere una vita e portarsela via.
Giulia ora sentiva un gran freddo in tutto il corpo. Avrebbe voluto trovarsi lontana da quella visione, da quel luogo, da tutta la sofferenza che vi era concentrata.
Intuiva che la presenza di Nadia, o di ciò che ne rimaneva, era legata ai pensieri dolorosi che si agitavano dentro di lei.
Come se le avesse letto dentro la mente, Nadia, con voce gentile, quasi un sussurro, le chiese: “Tu, invece, perché sei qui?”
Giulia guardò la sua amica di un tempo senza sapere cosa rispondere. Nell’aria c’era solo il fruscio leggero del vento, bisbigli smorzati nel silenzio della notte.  
Nadia si avvicinò e Giulia vide riflesso nei suoi occhi il chiarore delle stelle. Le parlò di nuovo e la sua voce era dolce, appena velata di malinconico rammarico. “ Pensi forse che la vita sia sofferenza? Allora non sai cos’è la morte. Mi vedi? Ti sembro felice? Il mio spirito vaga nella continua attesa di non so cosa, senza materia. Non ho un posto definito, dove stare, sempre in attesa che torni il mio treno e mi porti via con sé. Penso che sia quello che aspetti anche tu. Forse è per questo che sono qui, ce ne andremo insieme, se credi che ne valga la pena.” Le ultime parole rimasero sospese nell’aria, tremule come lacrime.
Giulia l’aveva ascoltata in silenzio piena d’angoscia. Il ricordo di una lapide bianca con la fotografia di una ragazzina sorridente e la scritta - riposa in pace - riaffiorarono nella sua mente. Dunque non era così? Non c’è pace? Per nessuno? Atterrita da quel pensiero, si sporse in avanti, tentando di abbracciare Nadia ma non ci riuscì. Si lasciò cadere a terra e pianse.
Non era così che doveva andare.
Quella mattina si era svegliata molto presto, presa da un’angosciosa inquietudine. Dalla finestra non filtrava nessuna luce e nessun rumore giungeva dalla strada. Rimase immobile, con gli occhi spalancati a frugare nel buio, alla ricerca di una ragione valida al  suo precoce risveglio. Accese la luce, si sollevò dai cuscini e scese dal letto. Infilò le pantofole e la vestaglia e si diresse verso la cucina. La caffettiera era già sul fornello, preparata la sera prima come da anni era solita fare. Accese il gas, sollevò la tapparella e attraverso i vetri intravide il cielo solcato da strisce di nuvole rosa. Era l’alba di un altro interminabile, inutile, faticoso giorno.
Il caffè cominciò a borbottare e un fragrante aroma si diffuse per tutta la casa. Lo versò nella tazzina e sedette a gustarlo, bollente, come piaceva a lei.
Aveva camminato a lungo per le strade illuminate a festa, soffermandosi brevemente a osservare le vetrine dei negozi, senza un vero interesse, senza curiosità. Non avrebbe fatto acquisti, né per sé, né per nessun altro.
Le strade erano in fermento, brulicavano di gente presa dalla frenesia degli ultimi acquisti, del regalo dell’ultimo momento.
Attraversò la strada e si diresse verso il viale che costeggiava il lago. Gettò uno sguardo distratto alle orribili fontane, che nelle intenzioni degli amministratori comunali avrebbero dovuto abbellire il lungolago, poi si fermò affascinata da un inatteso spettacolo.
Alta nel cielo brillava una luna enorme. Si rifletteva proprio al centro del lago e disegnava un grande cerchio increspato di  fili argentei, un tuffo di luce pura, splendida.
Rimase a lungo a guardare l’immagine della luna allo specchio. L’acqua si muoveva dolcemente,  cullata dalla  musica silenziosa diretta da invisibili mani.
Riprese a camminare oppressa dalla stanchezza. Dentro di sé un silenzio infinito, un cratere enorme dove prima batteva il cuore. Aveva esaurito le lacrime nel tentativo di lavare il suo dolore.
Un pianto sommesso la riportò alla realtà del momento. Ma quale realtà? Poteva essere reale ciò che stava accadendo? Dialogava con un fantasma emerso dal passato nella sua immaginazione o era veramente presente, lì, davanti a lei, la figura evanescente con le sembianze dell’amica di un tempo?
Sentì il terreno vibrare leggermente sotto di sé. Fu presa dallo spavento e istintivamente si ritrasse tremando. Il pensiero di restare per sempre imprigionata su quelle fredde rotaie, insieme a chissà quanti fantasmi, la terrorizzò.
Nadia cercò di prenderle la mano. “ Arriva,” disse “ credo che sia  il mio treno. Forse anche il tuo, se vorrai. Potremo andarcene insieme.”
Giulia si torse le mani gelide, una muta preghiera le salì alle labbra. Alzò gli occhi al cielo in cerca di aiuto e vide la luna in alto, sopra di lei. Era forse risalita dal lago per non lasciarla sola? Si meravigliò di quel pensiero infantile. Ma cosa andava a pensare?  La luna segue il suo percorso nel cielo, indifferente ai drammi umani. Non avrebbe potuto aiutarla in alcun modo.
Il treno sopraggiunse smuovendo l’aria turbinando e velocemente, così come era apparso, sparì dalla sua vista. Ritornò il silenzio.
La figura di Nadia le ondeggiò davanti e  Giulia scorse l’ombra di un sorriso sulle sue labbra pallide. “ Non è facile vero? Ma forse tu non volevi veramente farlo. Per quale motivo poi?” Il pensiero che si potesse desiderare di morire andava al di là della sua comprensione. Lei era morta nell’innocenza dei suoi quindici anni, con le braccia vuote di tutte le gioie che avrebbero potuto contenere e dispensare nel corso della sua esistenza. E vuote sarebbero rimaste per sempre, a brancicare nel nulla, nella ragnatela che il tempo tesseva senza sosta, inarrestabile.
Giulia si sentì  incapace di trasmetterle la sofferenza che provava. Come avrebbe potuto? Nadia non aveva conosciuto il dispiacere dell’abbandono, l’angoscia della solitudine. Non aveva conosciuto altro dolore se non quello della sua morte, per quanto terribile fosse stato.
Aveva riconosciuto i segni che indicavano chiaramente la fine del suo matrimonio. All’inizio è come una piccola crepa sul muro: l’intonaco si sfalda leggermente tutto intorno ma rimane appiccicato alla parete. Basta sfiorarlo con un dito e si sgretola, cade in pezzi, la crepa diventa una piccola voragine. Caduto l’intonaco rimane la nuda pietra.
Si sollevò da terra e si asciugò le lacrime, con le dita intirizzite dal freddo intenso di quella incredibile notte. Vacillando un poco tornò a sedersi sul masso, ruvido e umido, soffiando sulle mani nel tentativo di riscaldarle. Doveva andarsene da quel luogo, da quel fantasma triste e smarrito, sfuggito da chissà dove e chissà perché. Restare non aveva più senso.
Alzò lo sguardo verso l’alto, al cielo punteggiato di stelle pulsanti e vivide, gemme splendenti sparse sul velluto blu della notte. Guardandole Giulia sentì sciogliersi il nodo che l’aveva oppressa: era pronta a ricominciare, a riprendersi la sua vita senza il peso dei rimpianti. Sentiva di essere in grado di affrontare qualsiasi situazione.
Il tocco inaspettato di una mano sulla sua la sorprese immersa nella ritrovata serenità. Con gli occhi ancora umidi di pianto a stento mise a fuoco l’immagine che le stava davanti. Toccò la mano posata sulla sua in un gesto istintivo, meravigliata e incredula: era calda e morbida! Com’era possibile? Nadia aveva perduto l’alone evanescente di quando era apparsa, il suo corpo non fluttuava più leggero, senza peso, le sue labbra rosee erano dischiuse in un sorriso.
Stordita e confusa, percorsa da lunghi brividi, riuscì appena a formulare una domanda: “Nadia? Sei proprio tu?”
La voce era limpida e chiara mentre rispondeva: “Sì, sono io.”
“ Ma tu, come puoi…” Giulia non riuscì a finire di formulare la domanda. Non avrebbe avuto senso, se ne rendeva conto, ma niente di tutto quanto succedeva in quell’incredibile notte ne aveva. Era qualcosa di impossibile da comprendere.
Nadia le si avvicinò e le sfiorò i capelli: “ Come sei bella!” esclamò “ Stai tremando, hai paura? Non devi. Questa è la nostra notte. Tu vivrai ed io potrò andarmene in pace, grazie a te. Ora ho finalmente capito cosa mi trattenesse presso questi binari. Quella notte non ero pronta a morire, ma questa è un’altra notte e tu sei qui davanti a me. Il treno che arriverà sarà  solo per me .”
Come evocato da quelle ultime parole, un fischio acutissimo lacerò l’aria. Nadia prese la mano di Giulia, la portò al viso e la tenne contro la guancia, per risentire, un’ultima volta, il pulsare meraviglioso della vita. I suoi occhi si velarono di tristezza mentre sorrideva a Giulia. Si allontanò da lei e corse incontro al treno.
Il treno. Con gli occhi di fuoco spalancati nella notte, era arrivato stridendo e sibilando, furioso per tutto  il tempo trascorso nell’attesa di ritrovarla. Ora l’aveva ritrovata e l’avrebbe portata via, attraversando le barriere del tempo, dello spazio… e della ragione.
Giulia udì solamente un leggero tonfo e subito dopo un caleidoscopio di scintille si sparse intorno a lei, rischiarando il buio della notte. Oscillarono lentamente, danzando al tempo di una musica senza suoni, con la grazia di una ballerina classica. La ballerina che Nadia, ragazzina quindicenne, sognava di diventare.
Poi, come un sipario calato sulla scena, le scintille si spensero.
Solo una piccola luce brillò nell’oscurità, posata sulla mano di Giulia, la mano  che Nadia aveva portato al viso. Spalancò gli occhi stupita e la guardò: era una lacrima.
Una luccicante, trasparente, meravigliosa lacrima.
Il silenzio che l’avvolgeva fu interrotto dal suono delle campane. Si riscosse ancora incredula, ricordando: era la notte di Natale, la notte in cui tutto poteva accadere.
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