Grandi Filosofi...
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Ancora su Epicuro , ma non solo ...
Re: ... sulla passerella d'ingresso della nave in possesso …
annali il Gio 9 Lug 2020 alle 13:48 Aec-messaggio num#61558
Charade ha scritto:
... prima il dovere e poi il piacere altrimenti Epicuro ci fa due baffi e forse anche 3 ...
Epicuro era bravo soltanto a badare ai fatti propri, quindi hai sbagliato filosofo... Vedere qui:
annali il Gio Giu 05, 2014 3:15 pm Aec-messaggio num#17386
Nessun errore , credo … sarebbe error marchiano proprio da parte mia che con sciur Epicuro stiamo così :
Se gli antichi amanti di Sophie , (penso a quello del periodo socratico , ma anche prima ), fossero vissuti nei giorni informatici odierni , sarebbero degli im-perfetti prezzemolini della rete-tv-social ( i moderni esantematici tuttologi ) … Ognun di loro cosa doveva fare , quando gran parte di loro era benestante ? … 'gnente !... Ecco appunto il fiorir di “giardini” pieni di peripatetici che discettavano di tutto lo scibile a loro conoscibile , che per metodologia oggidì nella gran parte della visione del loro mondo dicevano a volte o anche spesse volte , castronerie immani … Oggigiorno qualsiasi liceale ad indirizzo umanistico , alle prese con la tesina ed esam di stato , alla fine riduce ognun di loro al primario concetto che han originalmente insegnato … Epicuro , l'amante di Sophie per eccellenza , insegnava e predicava il “piacere” (edonè), tanto che facilmente lo si traspone ad esso … Nell'immaginario più o meno collettivo l'associazione è totale poiché investe poi gran parte di tutti gli argomenti (concezione filosofica) tipici di quei pensatori :
+
La fisica e la cosmogonia ( senza metodo e quindi da fuggir a gambe levatissime da essa )
La teologia atea .
La societa' (o politica) .
Il piacere (edonismo) esclusivo .
+
Ognun di queste quali a prossimo sviluppo … %
+
L'unica massima sua da prendere in considerazione è questa:
" Non sciupare il bene che hai, per il desiderio di quello che non hai”.
Di certo non è la più famosa , ma va ben per un passaggio di firma digitale -
annali il Gio 9 Lug 2020 alle 13:48 Aec-messaggio num#61558
Charade ha scritto:
... prima il dovere e poi il piacere altrimenti Epicuro ci fa due baffi e forse anche 3 ...
Epicuro era bravo soltanto a badare ai fatti propri, quindi hai sbagliato filosofo... Vedere qui:
annali il Gio Giu 05, 2014 3:15 pm Aec-messaggio num#17386
Nessun errore , credo … sarebbe error marchiano proprio da parte mia che con sciur Epicuro stiamo così :
Se gli antichi amanti di Sophie , (penso a quello del periodo socratico , ma anche prima ), fossero vissuti nei giorni informatici odierni , sarebbero degli im-perfetti prezzemolini della rete-tv-social ( i moderni esantematici tuttologi ) … Ognun di loro cosa doveva fare , quando gran parte di loro era benestante ? … 'gnente !... Ecco appunto il fiorir di “giardini” pieni di peripatetici che discettavano di tutto lo scibile a loro conoscibile , che per metodologia oggidì nella gran parte della visione del loro mondo dicevano a volte o anche spesse volte , castronerie immani … Oggigiorno qualsiasi liceale ad indirizzo umanistico , alle prese con la tesina ed esam di stato , alla fine riduce ognun di loro al primario concetto che han originalmente insegnato … Epicuro , l'amante di Sophie per eccellenza , insegnava e predicava il “piacere” (edonè), tanto che facilmente lo si traspone ad esso … Nell'immaginario più o meno collettivo l'associazione è totale poiché investe poi gran parte di tutti gli argomenti (concezione filosofica) tipici di quei pensatori :
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La fisica e la cosmogonia ( senza metodo e quindi da fuggir a gambe levatissime da essa )
La teologia atea .
La societa' (o politica) .
Il piacere (edonismo) esclusivo .
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Ognun di queste quali a prossimo sviluppo … %
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L'unica massima sua da prendere in considerazione è questa:
" Non sciupare il bene che hai, per il desiderio di quello che non hai”.
Di certo non è la più famosa , ma va ben per un passaggio di firma digitale -
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Tactics without strategy is the noise before defeat... Sun Tzu
Charade- Senior
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Cesare Beccaria
Scomparso oggi ( 221anni fa) 28 novembre 1794, Cesare Beccaria - filosofo.
“Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”. Questa una delle sue riflessioni più significative.
Dalla sua opera: “Dei delitti e delle pene.
“Uno dei freni del delitto non deve essere la crudeltà della pena ma la certezza della pena.”
La giustizia che allontana il boia che si presenta con tre teste mozzate e gli strumenti del suo mestiere.
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Re: Grandi Filosofi...
SANT'AGOSTINO
Agostino nacque a Tagaste, l’odierna città algerina di Suq-Ahras, nella Numidia proconsolare, il 13 novembre del 354 d.C. Della sua vita (figlio di un decurione pagano e di Monica, cristiana virtuosa divenuta poi santa) si sa solo quello che scrisse nella sua nota biografia “Le Confessioni”, ossia tutto quanto ha voluto farci sapere fino al trentaquattresimo anno d’età.
Intraprese gli studi di letteratura e oratoria, interrotti però alla morte del padre. Si recò a Cartagine dove riprese gli studi e iniziò una relazione con una giovane cristiana che nel 372 lo rese padre di Adeodato. Nel 374 aderì al Manicheismo, religione creata da Mani, un nobile persiano, un insieme di dottrine derivate da Buddha, Zarathustra e Gesù Cristo. Imponeva tre obblighi: 1) dieta vegetariana e divieto di pronunciare parole scurrili; 2) rinunciare a qualsiasi forma di proprietà privata e interdizione ai lavori profani; 3) veto assoluto ai rapporti sessuali. Agostino vi aderì, per la la durata di nove anni, poi l'abbandonò in modo definitivo. Nel 375 insegnò eloquenza a Cartagine, interrompendo per riproporla poi a Roma, dove si recò nel 383. Era il periodo più instabile per la parte occidentale dell’impero, retta dagli imperatori Graziano e Valentiniano II. Graziano fu ucciso e il fratello Valentiniano trovò rifugio e supporto in oriente, presso Teodosio I, che lo confermò unico imperatore d’Occidente.
Nel 384 Agostino decise di trasferirsi a Milano, con l’incarico di professore di retorica, dove incontrò Ambrogio, vescovo della città, che esercitò su di lui un’influenza decisiva, grazie al metodo esegetico della scuola di Alessandria applicato alle Scritture.
L’interpretazione allegorica dell’Antico Testamento, consentì ad Agostino di risolvere le sue inquietudini e diventare catecumeno della chiesa cattolica. Il tormentato percorso intellettuale lo portò ad approfondire nel problema dell’incarnazione il punto di dissidio con il cristianesimo. A Milano fu raggiunto dalle due donne lasciate in Africa, madre sua e quella che lo aveva reso padre, e il figlio Adeodato. Non si sa se per decisione sua o se per imposizione, che la tunisina ritornò in Africa lasciando il figlio senza protestare. Agostino descrisse l’evento con la laconicità che si conciliava con la cultura maschilista dell’epoca, dalla quale aveva assorbito una non elevata considerazione per la donna che rispetto a maschio :… “ possiede eguale natura nell’intelligenza razionale, ma nel sesso fisico è sottoposta al sesso mascolino…nell’anima dell’uomo v’è una parte che delibera e quindi domina…” (Confessioni, XIII, 32.47)
L’influenza del vescovo di Milano e una maggior attenzione agli insegnamenti di Paolo lo portarono alla conversione nel 386 e a ricevere il battesimo nell’aprile 387.
Il cambiamento fu profondo. Abbandonò l’insegnamento per diventare monaco laico e tornò in Africa, dove, venduti i beni di famiglia e morto il figlio Deodato, cominciò una vita di lotta aperta agli eretici, in particolare ai manichei e donatisti.
Divenuto vescovo di Ippona nel 397, esercitò l’alto magistero con molto dinamismo.
Morì di febbri nel 430, durante l’assedio della sua città da parte dei Vandali di Genserico, chiamati dal conte Bonifacio di Spagna.
Agostino fu uno scrittore infaticabile, il suo pensiero subì una immensa serie di reinterpretazioni, cosicchè s’andò a formarsi l’ “agostinismo” scolastico, umanistico, protestante, gianseita,(per nominarne solo qualcuno). Dopo aver vissuto una trentina d’anni alla giornata, colse l’elemento capace di riscattare l’uomo dalle miserie quotidiane:l’amore.
“L’amore di se stessi portato sino al disprezzo di Dio genera la citta terrena, l’amore di Dio portato al disprezzo di se stessi genera la città celeste… I cittadini della città terrena sono dominati da una stolta cupidigia; i cittadini della città celeste si offrono l’un l’altro con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della discplina sociale” ( De Civitate Dei, XIV,28)
Questa la conclusione alla quale pervenne Agostino, un piccolo borghese divenuto un grande santo.
Intraprese gli studi di letteratura e oratoria, interrotti però alla morte del padre. Si recò a Cartagine dove riprese gli studi e iniziò una relazione con una giovane cristiana che nel 372 lo rese padre di Adeodato. Nel 374 aderì al Manicheismo, religione creata da Mani, un nobile persiano, un insieme di dottrine derivate da Buddha, Zarathustra e Gesù Cristo. Imponeva tre obblighi: 1) dieta vegetariana e divieto di pronunciare parole scurrili; 2) rinunciare a qualsiasi forma di proprietà privata e interdizione ai lavori profani; 3) veto assoluto ai rapporti sessuali. Agostino vi aderì, per la la durata di nove anni, poi l'abbandonò in modo definitivo. Nel 375 insegnò eloquenza a Cartagine, interrompendo per riproporla poi a Roma, dove si recò nel 383. Era il periodo più instabile per la parte occidentale dell’impero, retta dagli imperatori Graziano e Valentiniano II. Graziano fu ucciso e il fratello Valentiniano trovò rifugio e supporto in oriente, presso Teodosio I, che lo confermò unico imperatore d’Occidente.
Nel 384 Agostino decise di trasferirsi a Milano, con l’incarico di professore di retorica, dove incontrò Ambrogio, vescovo della città, che esercitò su di lui un’influenza decisiva, grazie al metodo esegetico della scuola di Alessandria applicato alle Scritture.
L’interpretazione allegorica dell’Antico Testamento, consentì ad Agostino di risolvere le sue inquietudini e diventare catecumeno della chiesa cattolica. Il tormentato percorso intellettuale lo portò ad approfondire nel problema dell’incarnazione il punto di dissidio con il cristianesimo. A Milano fu raggiunto dalle due donne lasciate in Africa, madre sua e quella che lo aveva reso padre, e il figlio Adeodato. Non si sa se per decisione sua o se per imposizione, che la tunisina ritornò in Africa lasciando il figlio senza protestare. Agostino descrisse l’evento con la laconicità che si conciliava con la cultura maschilista dell’epoca, dalla quale aveva assorbito una non elevata considerazione per la donna che rispetto a maschio :… “ possiede eguale natura nell’intelligenza razionale, ma nel sesso fisico è sottoposta al sesso mascolino…nell’anima dell’uomo v’è una parte che delibera e quindi domina…” (Confessioni, XIII, 32.47)
L’influenza del vescovo di Milano e una maggior attenzione agli insegnamenti di Paolo lo portarono alla conversione nel 386 e a ricevere il battesimo nell’aprile 387.
Il cambiamento fu profondo. Abbandonò l’insegnamento per diventare monaco laico e tornò in Africa, dove, venduti i beni di famiglia e morto il figlio Deodato, cominciò una vita di lotta aperta agli eretici, in particolare ai manichei e donatisti.
Divenuto vescovo di Ippona nel 397, esercitò l’alto magistero con molto dinamismo.
Morì di febbri nel 430, durante l’assedio della sua città da parte dei Vandali di Genserico, chiamati dal conte Bonifacio di Spagna.
Agostino fu uno scrittore infaticabile, il suo pensiero subì una immensa serie di reinterpretazioni, cosicchè s’andò a formarsi l’ “agostinismo” scolastico, umanistico, protestante, gianseita,(per nominarne solo qualcuno). Dopo aver vissuto una trentina d’anni alla giornata, colse l’elemento capace di riscattare l’uomo dalle miserie quotidiane:l’amore.
“L’amore di se stessi portato sino al disprezzo di Dio genera la citta terrena, l’amore di Dio portato al disprezzo di se stessi genera la città celeste… I cittadini della città terrena sono dominati da una stolta cupidigia; i cittadini della città celeste si offrono l’un l’altro con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della discplina sociale” ( De Civitate Dei, XIV,28)
Questa la conclusione alla quale pervenne Agostino, un piccolo borghese divenuto un grande santo.
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Re: Grandi Filosofi...
EPICURO “ Dobbiamo liberarci dal carcere degli affari”.
Il greco Epicuro, (341-271 a.C.) basava la sua filosofia sul sensismo, come criterio di conoscenza e sull’atomismo quale processo di formazione e coscienza della realtà. Egli non considerava alcuna intercessione divina.
Il suo orientamento filosofico, era finalizzato a esaltare le virtù dell’autocontrollo e del distacco delle cose terrene, per raggiungere l’integrità morale e intellettuale dell’uomo saggio.
L’accusa d’individualismo e il sospetto generato da alcuni risvolti etici, come il tenersi lontano dalla politica, seguendo il precetto del “ Vivi nascosto”, furono considerati minacciosi per l’integrità sociale.
Nel 306 si stabilì ad Atene dove acquistò una villa con giardino (perciò i suoi seguaci furono chiamati “quelli del giardino) che divenne il suo centro didattico.
Essendo divenuto, poco più che trentenne, un filoso abbastanza famoso gli procurò qualche antipatia. Timone di Fluente (325 a.C.- 235 a.C.) filoso scettico lo definì “ l’ultimo dei fisici, maestro di scuola, il più ignorante di tutti viventi”.
Da parte sua, Epicuro, seraficamente, asseriva d’essere autodidatta, di considerare Democrito un parolaio di paese. Di Platone e dei suoi allievi disse che erano solo adulatori di Dioniso I, tiranno di Siracusa. Da considerare in tutto ciò, che le scuole ateniesi dell’epoca (Accademia, Liceo, portico, Giardino) si occupavano, tra l’altro, di farsi una spietata concorrenza, come se le furibonde lotte tra i successori di Alessandro Magno, durate più di un quarantennio, si svolgessero su un altro pianeta e Atene fosse estranea alle vicende dell’impero macedone.
Vicende che sembravano non assillare Epicuro, preso da tutt’altri problemi. Compreso che non avrebbe potuto competere con le altre scuole filosofiche, specialmente con L’Accademia, aprì le porte dell’ateneo anche a chi digiuno di nozioni scientifiche e letterarie, alle classi sociali meno elevate. Così, mentre sul frontone dell’Accademia spiccava un’iscrizione che vietava l’accesso agli ignoranti di matematica, all’ingresso del “Giardino” si leggeva la scritta” Ospite, qui starai bene, qui il sommo bene è il piacer!”.
Per Epicuro, i sommi dèi, erano estranei e indifferenti alla vita umana, considerando che a loro nulla importava di togliere i mal esistenti nel mondo. Se i mali continuano a esistere, dunque si tratta di una divinità che vuole, ma non può, che può ma non vuole, oppure che non può e non vuole? Nel primo caso sarebbe una divinità impotente, nel secondo caso malvagia e nel terzo caso impotente e malvagia. Ma se la divinità non è impotente e nemmeno malvagia, perché non cancella le sofferenze dell’uomo? La risposta di Epicuro fu categorica: perché era chiaro che se ne infischiava dell’uomo e dei suoi mali sulla Terra!
Solo nell’assenza della sofferenza l’uomo può provare piacere e tale piacere diviene permanente esclusivamente con la morte, che ha come effetto l’insensibilità assoluta della mente e del corpo.
La massima lasciata da Epicuro si dovrebbe rammentare da mattina e sera” Non sciupare il bene che hai, per il desiderio di quello che non hai”.
Non è chiaro se includeva anche se stesso, però sopportò la sua vita “epicurea” con stoica rassegnazione.
Il suo orientamento filosofico, era finalizzato a esaltare le virtù dell’autocontrollo e del distacco delle cose terrene, per raggiungere l’integrità morale e intellettuale dell’uomo saggio.
L’accusa d’individualismo e il sospetto generato da alcuni risvolti etici, come il tenersi lontano dalla politica, seguendo il precetto del “ Vivi nascosto”, furono considerati minacciosi per l’integrità sociale.
Nel 306 si stabilì ad Atene dove acquistò una villa con giardino (perciò i suoi seguaci furono chiamati “quelli del giardino) che divenne il suo centro didattico.
Essendo divenuto, poco più che trentenne, un filoso abbastanza famoso gli procurò qualche antipatia. Timone di Fluente (325 a.C.- 235 a.C.) filoso scettico lo definì “ l’ultimo dei fisici, maestro di scuola, il più ignorante di tutti viventi”.
Da parte sua, Epicuro, seraficamente, asseriva d’essere autodidatta, di considerare Democrito un parolaio di paese. Di Platone e dei suoi allievi disse che erano solo adulatori di Dioniso I, tiranno di Siracusa. Da considerare in tutto ciò, che le scuole ateniesi dell’epoca (Accademia, Liceo, portico, Giardino) si occupavano, tra l’altro, di farsi una spietata concorrenza, come se le furibonde lotte tra i successori di Alessandro Magno, durate più di un quarantennio, si svolgessero su un altro pianeta e Atene fosse estranea alle vicende dell’impero macedone.
Vicende che sembravano non assillare Epicuro, preso da tutt’altri problemi. Compreso che non avrebbe potuto competere con le altre scuole filosofiche, specialmente con L’Accademia, aprì le porte dell’ateneo anche a chi digiuno di nozioni scientifiche e letterarie, alle classi sociali meno elevate. Così, mentre sul frontone dell’Accademia spiccava un’iscrizione che vietava l’accesso agli ignoranti di matematica, all’ingresso del “Giardino” si leggeva la scritta” Ospite, qui starai bene, qui il sommo bene è il piacer!”.
Per Epicuro, i sommi dèi, erano estranei e indifferenti alla vita umana, considerando che a loro nulla importava di togliere i mal esistenti nel mondo. Se i mali continuano a esistere, dunque si tratta di una divinità che vuole, ma non può, che può ma non vuole, oppure che non può e non vuole? Nel primo caso sarebbe una divinità impotente, nel secondo caso malvagia e nel terzo caso impotente e malvagia. Ma se la divinità non è impotente e nemmeno malvagia, perché non cancella le sofferenze dell’uomo? La risposta di Epicuro fu categorica: perché era chiaro che se ne infischiava dell’uomo e dei suoi mali sulla Terra!
Solo nell’assenza della sofferenza l’uomo può provare piacere e tale piacere diviene permanente esclusivamente con la morte, che ha come effetto l’insensibilità assoluta della mente e del corpo.
La massima lasciata da Epicuro si dovrebbe rammentare da mattina e sera” Non sciupare il bene che hai, per il desiderio di quello che non hai”.
Non è chiaro se includeva anche se stesso, però sopportò la sua vita “epicurea” con stoica rassegnazione.
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Re: Grandi Filosofi...
TOMMASO CAMPANELLA
Campanella nacque il 5 settembre 1568 a Stilo, in Calabria. Appena tredicenne vestì l’abito di novizio domenicano, dimostrando subito doti mnemoniche e vivacità intellettive. A Napoli, dove si era trasferito, affascinato dalle teorie cosmologiche copernicane, si dedicò all’astrologia e all’occultismo. La sua prima opera”Philosophia sensibus demonstrata” sarà fonte dei suoi primi guai, infatti, la pubblicazione l’anno successivo gli costò un processo per eresia, conclusosi con la condanna al soggiorno obbligatorio in Stilo. Trasgredendo agli ordini si recò a Roma, Firenze e Bologna, dove gli furono sottratti tutti i suoi manoscritti.
Nel 1595, accusato ancora di eresia, fu tradotto a Roma nelle carceri vaticane, dove riconosciuto colpevole e costretto a pubblica abiura, fu rinchiuso nel convento di Santa Sebina. Anche da rinchiuso, Campanella proseguì nella produzione letteraria, riscrivendo caparbiamente le composizioni regolarmente requisite. Nuovamente fu processato e condannato, col divieto di continuare a divulgare le proprie opere, alla residenza coatta nella cittadina natale.
O lui era costantemente alla ricerca di guai, oppure i guai cercavano lui, fatto sta che nel 1599 divenne promotore di una temeraria congiura anti-spagnola finalizzata alla creazione di una repubblica teocratica con lui legislatore. La progettata rivolta si concluse prima ancora di cominciare, con l’arresto e la comparizione davanti a un collegio giudicante misto, laico e religioso, palesemente per nulla incline alla clemenza. Per sfuggire alla pena di morte, Campanella si finse pazzo simulando segni di squilibrio anche durante la tortura. Condannato all’ergastolo, fu rinchiuso nelle prigioni napoletane di Castel Nuovo, continuando a fingersi pazzo e scrivere senza posa componendo, tra l’altro, la celebre “Città del Sole”. Per fiaccarne la resistenza fu gettato nell’orrida fossa di Castel Sant’Elmo, dove non solo sopravvisse alla fame e al freddo, ma seguitò a elaborare nuovi trattati immancabilmente sequestrati. Dal fondo di quella sorta di tombino in cui lo avevano cacciato, riuscì ugualmente a lanciare appelli e a propinare consigli a tutti i regnanti della terra. Finalmente nel 1626, gli fu concessa la grazia e affidato alle cure della chiesa romana. Papa urbano VIII, poeta e mecenate accolse benevolmente il monaco, il quale, nell’arco di due anni si conquistò i favori del pontefice, mentre le sue idee filosofiche e politiche gli attirarono l’antipatia della curia romana. Non sentendosi al sicuro, Campanella da Roma se ne scappò in Francia, a Parigi accolto dal re Luigi XIII e dal suo potentissimo primo ministro, il cardinale Richelieu.
Negli ultimi anni di vita non si sforzò, in nessun modo, di cogliere i prodromi della moderna filosofia, ma continuò a rivedere le sue opere, senza mai abbandonare l’utopistica speranza in un rinnovamento politico del mondo intero, sino al momento della morte avvenuta nel convento parigino di Saint Honoré, nel 21 maggio 1639.
Pensare che lo stesso uomo, dopo aver vissuto nelle condizioni di privazioni e isolamento per 27 anni, potesse elaborare idee politiche riformiste, anziché rivoluzionarie sarebbe illogico. Le idee irrealistiche lo avevano aiutato, più del cibo, a sopravvivere, a mantenere accesi i lucignoli della ragione, a non sprofondare completamente nel buio dell’apatia.
Nel 1595, accusato ancora di eresia, fu tradotto a Roma nelle carceri vaticane, dove riconosciuto colpevole e costretto a pubblica abiura, fu rinchiuso nel convento di Santa Sebina. Anche da rinchiuso, Campanella proseguì nella produzione letteraria, riscrivendo caparbiamente le composizioni regolarmente requisite. Nuovamente fu processato e condannato, col divieto di continuare a divulgare le proprie opere, alla residenza coatta nella cittadina natale.
O lui era costantemente alla ricerca di guai, oppure i guai cercavano lui, fatto sta che nel 1599 divenne promotore di una temeraria congiura anti-spagnola finalizzata alla creazione di una repubblica teocratica con lui legislatore. La progettata rivolta si concluse prima ancora di cominciare, con l’arresto e la comparizione davanti a un collegio giudicante misto, laico e religioso, palesemente per nulla incline alla clemenza. Per sfuggire alla pena di morte, Campanella si finse pazzo simulando segni di squilibrio anche durante la tortura. Condannato all’ergastolo, fu rinchiuso nelle prigioni napoletane di Castel Nuovo, continuando a fingersi pazzo e scrivere senza posa componendo, tra l’altro, la celebre “Città del Sole”. Per fiaccarne la resistenza fu gettato nell’orrida fossa di Castel Sant’Elmo, dove non solo sopravvisse alla fame e al freddo, ma seguitò a elaborare nuovi trattati immancabilmente sequestrati. Dal fondo di quella sorta di tombino in cui lo avevano cacciato, riuscì ugualmente a lanciare appelli e a propinare consigli a tutti i regnanti della terra. Finalmente nel 1626, gli fu concessa la grazia e affidato alle cure della chiesa romana. Papa urbano VIII, poeta e mecenate accolse benevolmente il monaco, il quale, nell’arco di due anni si conquistò i favori del pontefice, mentre le sue idee filosofiche e politiche gli attirarono l’antipatia della curia romana. Non sentendosi al sicuro, Campanella da Roma se ne scappò in Francia, a Parigi accolto dal re Luigi XIII e dal suo potentissimo primo ministro, il cardinale Richelieu.
Negli ultimi anni di vita non si sforzò, in nessun modo, di cogliere i prodromi della moderna filosofia, ma continuò a rivedere le sue opere, senza mai abbandonare l’utopistica speranza in un rinnovamento politico del mondo intero, sino al momento della morte avvenuta nel convento parigino di Saint Honoré, nel 21 maggio 1639.
Pensare che lo stesso uomo, dopo aver vissuto nelle condizioni di privazioni e isolamento per 27 anni, potesse elaborare idee politiche riformiste, anziché rivoluzionarie sarebbe illogico. Le idee irrealistiche lo avevano aiutato, più del cibo, a sopravvivere, a mantenere accesi i lucignoli della ragione, a non sprofondare completamente nel buio dell’apatia.
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Re: Grandi Filosofi...
Il mito della caverna di Platone...
PLATONE
Platone si chiamava Aristocle, come suo nonno. Il suo era un soprannome, ossia “ platys, largo” che gli venne appioppato a causa della sua corporatura da un insegnante di ginnastica.
Tradizionalmente la sua nascita si colloca in Atene nel 429 a. C.
La leggenda esalta le sue doti nella musica, nella ginnastica, nella matematica, nella poesia ( che a quanto pare detestava), nella pittura (che odiava al pari della poesia) e quella di eroico combattente.
Discepolo di Socrate, fu costretto a fuggire ancor prima della fine del processo contro il suo maestro, ritenuto colpevole di vilipendio alla religione di stato.
Dopo aver lasciato Atene, incurante del destino della vedova e degli orfani del suo maestro, si allontanò dall’Attica per recarsi prima in Libia, in Egitto e poi nella Magna Grecia.
Frequentando i circoli pitagorici a Taranto, conobbe Dione, che lo invitò a Siracusa.
Platone accettò l’offerta, cacciandosi in un’avventura politica che gli procurò parecchi guai.
Dione era cognato del tiranno Dionisio I il Vecchio, che in quel periodo, dopo aver stipulato un patto con Cartagine mirava a estendere il proprio potere in Calabria.
Dione, che amava complottare, riuscì a convincere Platone a unirsi a lui in una congiura di palazzo. Fallito il tentativo, Dioniso I lo fece prima arrestare e poi vendere come schiavo sul mercato di Egina.
Platone fu riscattato per la somma di 20 mine da Anniceri Di Cirene, che gli rese gratuitamente la libertà.
Approfittando di un periodo di pace in Grecia, riuscì ad aprire una propria scuola: l’Accademia, istituzione scolastica che prosperò lungamente.
Vent’anni dopo l’apertura dell’Accademia, ritornò su richiesta di Dione, a Siracusa, dove sperava di convincere Dioniso II il Giovane, a creare uno stato “ideale” ossia totalitario, impossibile da realizzare nella democratica Atene. Neppure stavolta le cose andarono per il verso giusto: Dione fu esiliato con il sequestro delle proprietà e Platone, mancato statista, fu costretto a tornarsene ai suoi studi filosofici ad Atene.
Raggiunto da Dione, fu convinto a recarsi nuovamente a Siracusa per tentare una pacificazione con Dioniso II, ma anche stavolta si salvò a stento per l’intercessione dei suoi amici pitagorici che governavano a Taranto, senza i quali Platone non avrebbe potuto lasciare la città.
A quel punto, Dione decise di rinunciare alle argomentazioni filosofiche e passò alle vie di fatto, organizzando pertanto una spedizione militare contro Dioniso, alla quale però, essendo troppo vecchio,(70 anni) Platone si rifiutò di partecipare, anche per rispettare i principi della non violenza.
Dione, vincitore, istaurò a Siracusa un regime violento e autoritario, per cui, durante una sommossa popolare fu sopraffatto e ucciso.
Platone, come amico e come ateniese ne fu sconvolto. Negli ultimi dieci anni di vita, amareggiato dalle proprie esperienze politiche, si ritirò nell’Accademia, estraniandosi da una Atene decadente che vedeva sempre più in mano alla plebe e ai demagoghi, per dedicarsi unicamente all’insegnamento.
Il destino, perlomeno, gli evitò l’amarezza di vedere un “barbaro”, Filippo il Macedone, seduto sullo scranno del potere ateniese. Morì due anni prima che avvenisse, all’età di ottant’anni, pare, durante un banchetto nuziale.
Tradizionalmente la sua nascita si colloca in Atene nel 429 a. C.
La leggenda esalta le sue doti nella musica, nella ginnastica, nella matematica, nella poesia ( che a quanto pare detestava), nella pittura (che odiava al pari della poesia) e quella di eroico combattente.
Discepolo di Socrate, fu costretto a fuggire ancor prima della fine del processo contro il suo maestro, ritenuto colpevole di vilipendio alla religione di stato.
Dopo aver lasciato Atene, incurante del destino della vedova e degli orfani del suo maestro, si allontanò dall’Attica per recarsi prima in Libia, in Egitto e poi nella Magna Grecia.
Frequentando i circoli pitagorici a Taranto, conobbe Dione, che lo invitò a Siracusa.
Platone accettò l’offerta, cacciandosi in un’avventura politica che gli procurò parecchi guai.
Dione era cognato del tiranno Dionisio I il Vecchio, che in quel periodo, dopo aver stipulato un patto con Cartagine mirava a estendere il proprio potere in Calabria.
Dione, che amava complottare, riuscì a convincere Platone a unirsi a lui in una congiura di palazzo. Fallito il tentativo, Dioniso I lo fece prima arrestare e poi vendere come schiavo sul mercato di Egina.
Platone fu riscattato per la somma di 20 mine da Anniceri Di Cirene, che gli rese gratuitamente la libertà.
Approfittando di un periodo di pace in Grecia, riuscì ad aprire una propria scuola: l’Accademia, istituzione scolastica che prosperò lungamente.
Vent’anni dopo l’apertura dell’Accademia, ritornò su richiesta di Dione, a Siracusa, dove sperava di convincere Dioniso II il Giovane, a creare uno stato “ideale” ossia totalitario, impossibile da realizzare nella democratica Atene. Neppure stavolta le cose andarono per il verso giusto: Dione fu esiliato con il sequestro delle proprietà e Platone, mancato statista, fu costretto a tornarsene ai suoi studi filosofici ad Atene.
Raggiunto da Dione, fu convinto a recarsi nuovamente a Siracusa per tentare una pacificazione con Dioniso II, ma anche stavolta si salvò a stento per l’intercessione dei suoi amici pitagorici che governavano a Taranto, senza i quali Platone non avrebbe potuto lasciare la città.
A quel punto, Dione decise di rinunciare alle argomentazioni filosofiche e passò alle vie di fatto, organizzando pertanto una spedizione militare contro Dioniso, alla quale però, essendo troppo vecchio,(70 anni) Platone si rifiutò di partecipare, anche per rispettare i principi della non violenza.
Dione, vincitore, istaurò a Siracusa un regime violento e autoritario, per cui, durante una sommossa popolare fu sopraffatto e ucciso.
Platone, come amico e come ateniese ne fu sconvolto. Negli ultimi dieci anni di vita, amareggiato dalle proprie esperienze politiche, si ritirò nell’Accademia, estraniandosi da una Atene decadente che vedeva sempre più in mano alla plebe e ai demagoghi, per dedicarsi unicamente all’insegnamento.
Il destino, perlomeno, gli evitò l’amarezza di vedere un “barbaro”, Filippo il Macedone, seduto sullo scranno del potere ateniese. Morì due anni prima che avvenisse, all’età di ottant’anni, pare, durante un banchetto nuziale.
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* VOLTAIRE *
Voltaire, pseudonimo con cui era conosciuto François- Marie Arouet, filosofo, poeta e drammaturgo. Legato al movimento culturale dell’illuminismo.
Il successo delle sue opere letterarie gli consentiva di frequentare la nobiltà parigina, finché non diede la sua prima grande prova nel 1717, della sua diplomazia componendo una satira sui costumi di Filippo II duca d‘Orleans, allora reggente di Francia, che gli costò un anno di carcere alla Bastiglia. Una volta uscito di prigione mise in scena con successo straordinario il suo lavoro teatrale Edipo, tragedia nella quale insinuazioni miscredenti, proclami libertini ed enunciati anti-clericali si rincorrono di continuo. Nel 1723 compose il poema “La Lega”, esaltazione dei protestanti nelle guerre di religione, con conseguente putiferio. Due anni dopo, con le sue satire offese il cavaliere di Rohan che lo fece bastonare dai suoi servi.
Le leggi dell’epoca prevedevano la prigione o l’esilio per chi veniva bastonato e non apparteneva alla nobiltà. Imprigionato ancora una volta nella Bastiglia, fu successivamente liberato, ma fu costretto a lasciare la Francia ed emigrare in Inghilterra, dove conobbe uomini di cultura liberale, filosofi e scrittori, manifestando profonda ammirazione per la cultura filosofica, politica, scientifica e religiosa d’oltre Manica e dove maturò le idee illuministe contrarie all’assolutismo della Francia. Quando furono pubblicate Le “Lettere filosofiche sugli inglesi”, dove esaltava lo spirito liberale e tollerante anglosassone e di contro formulava violente critiche nei confronti della società francese, suscitò entusiasmo in Inghilterra, mentre in Francia l’opera fu immediatamente sequestrata e bruciata.
Voltaire, come quasi tutti i filosofi dell’epoca nel complesso, non aveva molta fiducia nel popolo, nel quale vedeva solo una massa senza cervello e dalle distorte passioni, derivanti dal dominio secolare della superstizione religiosa.
Nel 1745, grazie all’appoggio della marchesa di Pompadour, fu ricevuto alla corte di Luigi XV, nominato “gentiluomo di camera” e accolto l’anno successivo all’Accademia di Francia. Invitato nella reggia di Federico II il Grande, vi trascorse un tempo in sodalizio di mutua ammirazione con il re di Prussia, prima che si sciogliesse per l’atteggiamento suo arrogante e indisponente. Per rispettare il divieto di dimorare a Parigi, nel 1755 si trasferì in Svizzera, accolto in principio con entusiasmo, ma dopo l’infelice idea di manifestare nel “Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni”, la propria simpatia per un personaggio che Giovanni Calvino aveva mandato al rogo, divenuto oggetto di crescente ostilità, rientrò in Francia.
Scrisse battendosi soprattutto contro l’intolleranza e il fanatismo a favore della libertà civile e dello Stato di diritto, senza però trascurare l’oculata gestione dei propri beni e della fama. Il “Candido ovvero l’ottimismo”, fu un romanzo satirico contro l’ottimismo dei filosofi, i quali, in virtù di una presunta armonia prestabilita (da Dio) sostenevano che tutto andava per il meglio e nel migliore dei modi possibili.
Scrisse “ la Pulzella d’Orléans” entrando in polemica con i cattolici per la parodia di Giovanna d’Arco. Il romanzo era l’espressione letteraria più riuscita del suo pensiero contrario a ogni fatalismo o provvidenzialismo.
Tra le opere non narrative scrisse il “Trattato sulla tolleranza” e il “Dizionario filosofico” nel periodo in cui collaborò con Diderot e D’Alembert per la realizzazione dell’Encyclopédie.
Morì nel 1778, durante la rappresentazione della sua tragedia “Irene”, senza poter godere dell’accoglienza trionfale che gli era stata riservata, accolto nell’aldilà nel quale non credeva. Almeno di lui, rispetto ad altri illuministi, non si può dire che sia stato troppo noioso.
Il successo delle sue opere letterarie gli consentiva di frequentare la nobiltà parigina, finché non diede la sua prima grande prova nel 1717, della sua diplomazia componendo una satira sui costumi di Filippo II duca d‘Orleans, allora reggente di Francia, che gli costò un anno di carcere alla Bastiglia. Una volta uscito di prigione mise in scena con successo straordinario il suo lavoro teatrale Edipo, tragedia nella quale insinuazioni miscredenti, proclami libertini ed enunciati anti-clericali si rincorrono di continuo. Nel 1723 compose il poema “La Lega”, esaltazione dei protestanti nelle guerre di religione, con conseguente putiferio. Due anni dopo, con le sue satire offese il cavaliere di Rohan che lo fece bastonare dai suoi servi.
Le leggi dell’epoca prevedevano la prigione o l’esilio per chi veniva bastonato e non apparteneva alla nobiltà. Imprigionato ancora una volta nella Bastiglia, fu successivamente liberato, ma fu costretto a lasciare la Francia ed emigrare in Inghilterra, dove conobbe uomini di cultura liberale, filosofi e scrittori, manifestando profonda ammirazione per la cultura filosofica, politica, scientifica e religiosa d’oltre Manica e dove maturò le idee illuministe contrarie all’assolutismo della Francia. Quando furono pubblicate Le “Lettere filosofiche sugli inglesi”, dove esaltava lo spirito liberale e tollerante anglosassone e di contro formulava violente critiche nei confronti della società francese, suscitò entusiasmo in Inghilterra, mentre in Francia l’opera fu immediatamente sequestrata e bruciata.
Voltaire, come quasi tutti i filosofi dell’epoca nel complesso, non aveva molta fiducia nel popolo, nel quale vedeva solo una massa senza cervello e dalle distorte passioni, derivanti dal dominio secolare della superstizione religiosa.
Nel 1745, grazie all’appoggio della marchesa di Pompadour, fu ricevuto alla corte di Luigi XV, nominato “gentiluomo di camera” e accolto l’anno successivo all’Accademia di Francia. Invitato nella reggia di Federico II il Grande, vi trascorse un tempo in sodalizio di mutua ammirazione con il re di Prussia, prima che si sciogliesse per l’atteggiamento suo arrogante e indisponente. Per rispettare il divieto di dimorare a Parigi, nel 1755 si trasferì in Svizzera, accolto in principio con entusiasmo, ma dopo l’infelice idea di manifestare nel “Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni”, la propria simpatia per un personaggio che Giovanni Calvino aveva mandato al rogo, divenuto oggetto di crescente ostilità, rientrò in Francia.
Scrisse battendosi soprattutto contro l’intolleranza e il fanatismo a favore della libertà civile e dello Stato di diritto, senza però trascurare l’oculata gestione dei propri beni e della fama. Il “Candido ovvero l’ottimismo”, fu un romanzo satirico contro l’ottimismo dei filosofi, i quali, in virtù di una presunta armonia prestabilita (da Dio) sostenevano che tutto andava per il meglio e nel migliore dei modi possibili.
Scrisse “ la Pulzella d’Orléans” entrando in polemica con i cattolici per la parodia di Giovanna d’Arco. Il romanzo era l’espressione letteraria più riuscita del suo pensiero contrario a ogni fatalismo o provvidenzialismo.
Tra le opere non narrative scrisse il “Trattato sulla tolleranza” e il “Dizionario filosofico” nel periodo in cui collaborò con Diderot e D’Alembert per la realizzazione dell’Encyclopédie.
Morì nel 1778, durante la rappresentazione della sua tragedia “Irene”, senza poter godere dell’accoglienza trionfale che gli era stata riservata, accolto nell’aldilà nel quale non credeva. Almeno di lui, rispetto ad altri illuministi, non si può dire che sia stato troppo noioso.
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Re: Grandi Filosofi...
MARSILIO FICINO
Agli esordi del XV secolo in Europa occidentale la cultura aveva ormai messo radici.
Quando Costantinopoli cadde in mano ai turchi, nel 1453, una delle conseguenze del disastro fu l’esodo massiccio di eruditi ed ecclesiastici. La maggior parte degli esuli attraversò l’Adriatico diretti in Italia, alcuni dei quali portando con sé opere manoscritte di valore inestimabile.
L’Accademia di Firenze, sul modello dei suoi precedenti classici, non era una scuola convenzionale, ma una libera associazione di persone interessate agli studi platonici ed ermetici. Fra i frequentatori vi furono Lorenzo il Magnifico e l’architetto Leon Battista Alberti. Vi si tenevano conferenze, simposi e feste. Presiedeva l’Istituzione Marsilio Ficino, nato a Firenze nel 1433, divenuto profondo conoscitore, in seguito degli studi umanistici, oltre che delle materie tipiche dell’epoca, anche di musica, lingua e filosofia greca. Lo studio del pensiero greco aveva inferto un duro colpo alla sua fede e le conferenze degli esuli bizantini lo avevano appassionato a tal punto che l’Arcivescovo di Firenze gli proibì di tenere conferenze, pena la scomunica.
Ficino tentava di far rivivere una forma di scuola misterico pagana, con tanto di pratiche, rituali e cerimonie; cantava gli inni orfici e fece decorare la sua villa a Careggi con immagini astrologiche. La contemplazione, sosteneva, era spiritualmente benefica e apportatrice di illuminazione interiore. Intorno ai muri dell’edificio aveva fatto scrivere l’iscrizione: “ Tutte le cose vengono dal bene e vanno verso il bene. Gioisci del presente, non dar retta alla proprietà, non cercare onori, evita gli eccessi”.
La magia di Ficino permetteva di far ricorso a principi cosmici ma per potersi avvalere della potenza del Sole si doveva indossare un mantello color dell’oro: “ Se volete che il vostro corpo e il vostro spirito ricevano potere dal Sole, imparate a conoscere fra i metalli e le pietre, fra le piante e gli animali, quali sono quelli solari. Indossate abiti solari, vivete in luoghi solari, guardate solare, pensate solare e persino desiderate in modo solare”.
Quando Costantinopoli cadde in mano ai turchi, nel 1453, una delle conseguenze del disastro fu l’esodo massiccio di eruditi ed ecclesiastici. La maggior parte degli esuli attraversò l’Adriatico diretti in Italia, alcuni dei quali portando con sé opere manoscritte di valore inestimabile.
L’Accademia di Firenze, sul modello dei suoi precedenti classici, non era una scuola convenzionale, ma una libera associazione di persone interessate agli studi platonici ed ermetici. Fra i frequentatori vi furono Lorenzo il Magnifico e l’architetto Leon Battista Alberti. Vi si tenevano conferenze, simposi e feste. Presiedeva l’Istituzione Marsilio Ficino, nato a Firenze nel 1433, divenuto profondo conoscitore, in seguito degli studi umanistici, oltre che delle materie tipiche dell’epoca, anche di musica, lingua e filosofia greca. Lo studio del pensiero greco aveva inferto un duro colpo alla sua fede e le conferenze degli esuli bizantini lo avevano appassionato a tal punto che l’Arcivescovo di Firenze gli proibì di tenere conferenze, pena la scomunica.
Ficino tentava di far rivivere una forma di scuola misterico pagana, con tanto di pratiche, rituali e cerimonie; cantava gli inni orfici e fece decorare la sua villa a Careggi con immagini astrologiche. La contemplazione, sosteneva, era spiritualmente benefica e apportatrice di illuminazione interiore. Intorno ai muri dell’edificio aveva fatto scrivere l’iscrizione: “ Tutte le cose vengono dal bene e vanno verso il bene. Gioisci del presente, non dar retta alla proprietà, non cercare onori, evita gli eccessi”.
La magia di Ficino permetteva di far ricorso a principi cosmici ma per potersi avvalere della potenza del Sole si doveva indossare un mantello color dell’oro: “ Se volete che il vostro corpo e il vostro spirito ricevano potere dal Sole, imparate a conoscere fra i metalli e le pietre, fra le piante e gli animali, quali sono quelli solari. Indossate abiti solari, vivete in luoghi solari, guardate solare, pensate solare e persino desiderate in modo solare”.
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GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA
PICO DELLA MIRANDOLA (1463-1494)
Giovanni Pico della Mirandola, nacque da una famiglia della piccola nobiltà del nord. Giovanissimo, voltate le spalle ai privilegi del suo rango per dedicarsi al “sapere”, seguì vari corsi nelle università di Bologna, Ferrara, Padova e Parigi, dove studiò legge canonica, letteratura, la Scolastica, teologia medievale, filosofia, lingua greca.
Si dedicò a una ricerca che gli sarebbe valsa a concepire una sintesi di tutte le conoscenze e di tutte le imprese dell’umanità. Il suo grande interessa era rivolto alla Cabala che spiegò come fonte di sapienza per decifrare il mistero che circonda il mondo dentro il quale Dio appare nell’oscurità, irraggiungibile dalla ragione. La magia cabalistica, partendo dalla natura, opera attraverso simboli e metafore che va oltre il visibile della realtà assoluta, portando alla conoscenza della struttura matematica della natura stessa.
Nel 1486 si dedicò all’ambizioso progetto di redigere un compendio di 900 tesi o proposizioni, di orientamento ermetico, sfidando la cristianità chiamandola a un contradditorio.
Nelle sue tesi erano fusi elementi magici e mistici del cristianesimo, dell’ebraismo, dell’islamismo e del pensiero ermetico.
Pico fece suoi i convincimenti dell’accademico Ficino e del cabalista ermetico Alemanno, i quali sostenevano la validità di talismani magici. In conformità a tradizioni antiche, quindi, si convinse che sul monte Sinai, Mosè non avesse ricevuto solo le tavole della Legge, ma anche la loro interpretazione mistica – esoterica.
Mentre progettava il dibattito in cui si proponeva di difendere le sue 900 tesi, preparava anche un’orazione sulla dignità dell’uomo, da esporre in apertura dell’incontro.
Il dibattito non ebbe mai luogo poiché il pontefice lo proibì, dichiarando eretiche tredici delle sue tesi.
L’orazione, considerata una chiara ed efficace summa del pensiero di Pico, fu data alle stampe postuma. Nei suoi enunciati, affermava, l’uomo è stato creato per essere al centro del mondo, e, da questa posizione, egli potrà fare di se stesso ciò che vuole grazie al libero arbitrio.
Attraverso la capacità di modellare la circostante realtà, l’uomo avrebbe potuto determinare in piena libertà e responsabilità il proprio destino e controllarlo per mezzo della scienza.
Si dedicò a una ricerca che gli sarebbe valsa a concepire una sintesi di tutte le conoscenze e di tutte le imprese dell’umanità. Il suo grande interessa era rivolto alla Cabala che spiegò come fonte di sapienza per decifrare il mistero che circonda il mondo dentro il quale Dio appare nell’oscurità, irraggiungibile dalla ragione. La magia cabalistica, partendo dalla natura, opera attraverso simboli e metafore che va oltre il visibile della realtà assoluta, portando alla conoscenza della struttura matematica della natura stessa.
Nel 1486 si dedicò all’ambizioso progetto di redigere un compendio di 900 tesi o proposizioni, di orientamento ermetico, sfidando la cristianità chiamandola a un contradditorio.
Nelle sue tesi erano fusi elementi magici e mistici del cristianesimo, dell’ebraismo, dell’islamismo e del pensiero ermetico.
Pico fece suoi i convincimenti dell’accademico Ficino e del cabalista ermetico Alemanno, i quali sostenevano la validità di talismani magici. In conformità a tradizioni antiche, quindi, si convinse che sul monte Sinai, Mosè non avesse ricevuto solo le tavole della Legge, ma anche la loro interpretazione mistica – esoterica.
Mentre progettava il dibattito in cui si proponeva di difendere le sue 900 tesi, preparava anche un’orazione sulla dignità dell’uomo, da esporre in apertura dell’incontro.
Il dibattito non ebbe mai luogo poiché il pontefice lo proibì, dichiarando eretiche tredici delle sue tesi.
L’orazione, considerata una chiara ed efficace summa del pensiero di Pico, fu data alle stampe postuma. Nei suoi enunciati, affermava, l’uomo è stato creato per essere al centro del mondo, e, da questa posizione, egli potrà fare di se stesso ciò che vuole grazie al libero arbitrio.
Attraverso la capacità di modellare la circostante realtà, l’uomo avrebbe potuto determinare in piena libertà e responsabilità il proprio destino e controllarlo per mezzo della scienza.
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Re: Grandi Filosofi...
IMMANUEL KANT
Nei testi scolastici si legge che nacque,(1724) visse, studiò, insegnò e morì, a Konigsberg.
La sua fu una vita tanto metodica da consentire ai concittadini di regolare gi orologi in base all’ora della sua uscita da casa per la quotidiana passeggiata.
Uno dei suoi allievi, Johann Herder, lo descrive come un uomo pieno di arguzia, di gaia vivacità e sempre pronto allo scherzo.
A parte i dovuti riconoscimenti al lato caratteriale dell’“uomo Kant”, lo stesso Herder non esitò a giudicare la “ Critica della ragion pura”, devastante per l’intelletto.
Comunque fosse, la prima edizione passò, infatti, sotto silenzio.
Il padre, d’origine lituana, era un sellaio. Quarto di nove figli, rimase orfano di madre all’età di tredici anni.
Nel 1732 entrò nel “Collegium Fridericianum", il cui direttore era un seguace del movimento pietista. Il pietismo fu una corrente religiosa, che si era formata nell’ambito dell’ortodossia luterana tedesca.
Uscito dal collegio, nel 1740 si iscrisse all’università di Konigsberg che lasciò dopo la morte del padre, nel 1746, per dedicarsi all’insegnamento privato nelle case dei nobili.
In quel periodo portò a termine il suo primo scritto “ Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive”. Nel 1755 ottenne il titolo di magister e l’abilitazione alla libera docenza.
Per ottenere la cattedra di filosofia, però, dovette attendere quindici anni.
Dopo le lezioni, di matematica, fisica, geografia, mineralogia e diritto naturale, per evadere “mentalmente” si mise a scrivere di cronaca varia. Nel 1766 pubblicò un’operetta dove espresse il suo parere sulle prodigiose visioni di Emmanuel Swedenborg, il quale asseriva di comunicare con le anime dei defunti. Dopo “approfondita” analisi, Kant concluse che quelli come Swedenborg dovessero essere rinchiusi.
Finalmente, nel 1770, vinse il concorso per la cattedra di logica e metafisica all’università della sua città: aveva raggiunto la meta agognata a quarantasei anni!
Kant d’estate e d’inverno si alzava puntualmente alle cinque del mattino e alle dieci di sera se ne andava a letto. La sua mania per l’ordine era proverbiale, guai trovare qualcosa spostato rispetto alla posizione abituale. Odiava la musica, tranne quella delle fanfare, come qualsiasi altro rumore.
Nella “Critica del giudizio”, scrisse: -“ Quelli che hanno raccomandato, negli esercizi religiosi domestici, anche il canto degli inni, non hanno riflettuto che una devozione così rumorosa imponeva una grande molestia al pubblico, obbligando il vicinato a prendere parte al canto o a rinunziare a ogni occupazione intellettuale.”
Nel 1778 divenne membro del senato accademico dell’ateneo do Konigsberg, del quale nel 1786 fu nominato rettore.
Il 14 ottobre 1794, avvenne l’unico fatto clamoroso della sua vita: gli fu recapitato un minaccioso avvertimento del re Federico Guglielmo II (un re che per gli undici anni in cui cinse la corona non regnò affatto, mettendo nelle mani di cortigiani intriganti le sorti del suo regno). La politica interna era stata affidata a un ex pastore protestante il quale, sin dall’inizio del suo mandato aveva imposto una rigorosa ortodossia protestante.
Aveva abolito la libertà di stampa e sottoposta a censura preventiva le pubblicazioni di carattere religioso.
Kant fu minacciato per aver pubblicato, nel 1794, la “ Religione nei limiti della ragione”, a Jena, quindi fuori dai confini territoriali della Prussia, avendo inoltre ottenuto il nullaosta della censura.
Ciononostante, nella lettera minacciosa si affermava che le idee contenute in quello scritto erano in contrasto con i principi della Bibbia e gli si proibiva di insegnarle, pena grave sanzioni.
Kant, sia pur respingendo l’accusa, promise di attenersi al divieto limitando il proprio impegno alla durata della vita del re, durata assai limitata poiché il re Federico Guglielmo II si spense nel novembre 1797. L’anno prima, Kant aveva tenuto la sua ultima lezione accademica.
Si spense nel febbraio 1804, senza riconoscere nessuno di quanti gli stavano attorno.
La sua fu una vita tanto metodica da consentire ai concittadini di regolare gi orologi in base all’ora della sua uscita da casa per la quotidiana passeggiata.
Uno dei suoi allievi, Johann Herder, lo descrive come un uomo pieno di arguzia, di gaia vivacità e sempre pronto allo scherzo.
A parte i dovuti riconoscimenti al lato caratteriale dell’“uomo Kant”, lo stesso Herder non esitò a giudicare la “ Critica della ragion pura”, devastante per l’intelletto.
Comunque fosse, la prima edizione passò, infatti, sotto silenzio.
Il padre, d’origine lituana, era un sellaio. Quarto di nove figli, rimase orfano di madre all’età di tredici anni.
Nel 1732 entrò nel “Collegium Fridericianum", il cui direttore era un seguace del movimento pietista. Il pietismo fu una corrente religiosa, che si era formata nell’ambito dell’ortodossia luterana tedesca.
Uscito dal collegio, nel 1740 si iscrisse all’università di Konigsberg che lasciò dopo la morte del padre, nel 1746, per dedicarsi all’insegnamento privato nelle case dei nobili.
In quel periodo portò a termine il suo primo scritto “ Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive”. Nel 1755 ottenne il titolo di magister e l’abilitazione alla libera docenza.
Per ottenere la cattedra di filosofia, però, dovette attendere quindici anni.
Dopo le lezioni, di matematica, fisica, geografia, mineralogia e diritto naturale, per evadere “mentalmente” si mise a scrivere di cronaca varia. Nel 1766 pubblicò un’operetta dove espresse il suo parere sulle prodigiose visioni di Emmanuel Swedenborg, il quale asseriva di comunicare con le anime dei defunti. Dopo “approfondita” analisi, Kant concluse che quelli come Swedenborg dovessero essere rinchiusi.
Finalmente, nel 1770, vinse il concorso per la cattedra di logica e metafisica all’università della sua città: aveva raggiunto la meta agognata a quarantasei anni!
Kant d’estate e d’inverno si alzava puntualmente alle cinque del mattino e alle dieci di sera se ne andava a letto. La sua mania per l’ordine era proverbiale, guai trovare qualcosa spostato rispetto alla posizione abituale. Odiava la musica, tranne quella delle fanfare, come qualsiasi altro rumore.
Nella “Critica del giudizio”, scrisse: -“ Quelli che hanno raccomandato, negli esercizi religiosi domestici, anche il canto degli inni, non hanno riflettuto che una devozione così rumorosa imponeva una grande molestia al pubblico, obbligando il vicinato a prendere parte al canto o a rinunziare a ogni occupazione intellettuale.”
Nel 1778 divenne membro del senato accademico dell’ateneo do Konigsberg, del quale nel 1786 fu nominato rettore.
Il 14 ottobre 1794, avvenne l’unico fatto clamoroso della sua vita: gli fu recapitato un minaccioso avvertimento del re Federico Guglielmo II (un re che per gli undici anni in cui cinse la corona non regnò affatto, mettendo nelle mani di cortigiani intriganti le sorti del suo regno). La politica interna era stata affidata a un ex pastore protestante il quale, sin dall’inizio del suo mandato aveva imposto una rigorosa ortodossia protestante.
Aveva abolito la libertà di stampa e sottoposta a censura preventiva le pubblicazioni di carattere religioso.
Kant fu minacciato per aver pubblicato, nel 1794, la “ Religione nei limiti della ragione”, a Jena, quindi fuori dai confini territoriali della Prussia, avendo inoltre ottenuto il nullaosta della censura.
Ciononostante, nella lettera minacciosa si affermava che le idee contenute in quello scritto erano in contrasto con i principi della Bibbia e gli si proibiva di insegnarle, pena grave sanzioni.
Kant, sia pur respingendo l’accusa, promise di attenersi al divieto limitando il proprio impegno alla durata della vita del re, durata assai limitata poiché il re Federico Guglielmo II si spense nel novembre 1797. L’anno prima, Kant aveva tenuto la sua ultima lezione accademica.
Si spense nel febbraio 1804, senza riconoscere nessuno di quanti gli stavano attorno.
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Re: Grandi Filosofi...
SOCRATE
Socrate nacque nel 469 a.C. nel misero sobborgo ateniese di Alopece e fu condannato a suicidarsi ingoiando un infuso di cicuta nel mese di maggio o giugno 399 a. C.
Come tutti i giovani ateniesi appartenenti alle famiglie meno facoltose, fruì di un’istruzione sommaria, anche se gli fu attribuito come maestro Anassagora di Clazomene.
Fisicamente, era tutt’altro che avvenente. Brunetto Latini, letterato fiorentino lo descrive così: “ ei fue molto laido uomo da vedere, ch’elli era piccolo malamente, el volto piloso, le nari ampie e rintuzzate, la testa calva e cavata, piloso il collo e li omeri, le gambe sottili e ravvolte”.
Partecipò come soldato di fanteria, all’assedio di Potidea nel 430 a. C., salvando in quell’occasione, la vita al giovanissimo Alcibiade caduto da cavallo, caricandoselo sulle spalle.
Nel 399 fu accusato di vilipendio alla religione di stato e corruzione della gioventù.
L’accusa fu mossa da Meleto, un giovane sconosciuto poeta. L’imputazione nella sua formula originale era questa: “ Socrate è reo di non venerare nelle debite forme e di non riconoscere gli dei che la città venera e d’introdurre enti demoniaci nuovi. È altresì reo di corrompere i giovani. Pena : la morte”.
Analoga accusa era toccata ad Anassagora e a Protagora, i quali per evitare il processo avevano saggiamente abbandonato l’Attica.
Socrate invece, affrontò il giudizio, confidando che l’accusa non poteva produrre prove concrete (non aveva mai scritto nemmeno un opuscolo), ma solo testimonianze di dubbio valore.
Perorando la sua difesa, si era dichiarato vittima di maldicenze, si era abbandonato a sofismi per molti incomprensibili, aveva dato del somaro a gran parte dell’auditorio, si era definito benefattore incompreso della collettività ed aveva affermato che nel regime democratico ateniese, ad opporsi pubblicamente alle numerose ingiustizie si poteva rischiare la pelle.
Alla fine fu dichiarato colpevole e il suo tragico epilogo pare sia in buona parte dovuto alla sua scriteriata linea difensiva. Socrate, anziché affidarsi alla clemenza della corte e battersi per una pena ragionevole, che sarebbe stata anche accettata dall’accusa, cui non interessava creare un martire, assunse un atteggiamento sarcastico, indisponente.
Dopo aver assaporato un attimo di celebrità, senza aver conseguito il trionfo dalla sua oratoria, rifiutò l’onta della fuga. Preferì una morte dignitosa, accettando il ruolo che il destino gli aveva assegnato.
Come tutti i giovani ateniesi appartenenti alle famiglie meno facoltose, fruì di un’istruzione sommaria, anche se gli fu attribuito come maestro Anassagora di Clazomene.
Fisicamente, era tutt’altro che avvenente. Brunetto Latini, letterato fiorentino lo descrive così: “ ei fue molto laido uomo da vedere, ch’elli era piccolo malamente, el volto piloso, le nari ampie e rintuzzate, la testa calva e cavata, piloso il collo e li omeri, le gambe sottili e ravvolte”.
Partecipò come soldato di fanteria, all’assedio di Potidea nel 430 a. C., salvando in quell’occasione, la vita al giovanissimo Alcibiade caduto da cavallo, caricandoselo sulle spalle.
Nel 399 fu accusato di vilipendio alla religione di stato e corruzione della gioventù.
L’accusa fu mossa da Meleto, un giovane sconosciuto poeta. L’imputazione nella sua formula originale era questa: “ Socrate è reo di non venerare nelle debite forme e di non riconoscere gli dei che la città venera e d’introdurre enti demoniaci nuovi. È altresì reo di corrompere i giovani. Pena : la morte”.
Analoga accusa era toccata ad Anassagora e a Protagora, i quali per evitare il processo avevano saggiamente abbandonato l’Attica.
Socrate invece, affrontò il giudizio, confidando che l’accusa non poteva produrre prove concrete (non aveva mai scritto nemmeno un opuscolo), ma solo testimonianze di dubbio valore.
Perorando la sua difesa, si era dichiarato vittima di maldicenze, si era abbandonato a sofismi per molti incomprensibili, aveva dato del somaro a gran parte dell’auditorio, si era definito benefattore incompreso della collettività ed aveva affermato che nel regime democratico ateniese, ad opporsi pubblicamente alle numerose ingiustizie si poteva rischiare la pelle.
Alla fine fu dichiarato colpevole e il suo tragico epilogo pare sia in buona parte dovuto alla sua scriteriata linea difensiva. Socrate, anziché affidarsi alla clemenza della corte e battersi per una pena ragionevole, che sarebbe stata anche accettata dall’accusa, cui non interessava creare un martire, assunse un atteggiamento sarcastico, indisponente.
Dopo aver assaporato un attimo di celebrità, senza aver conseguito il trionfo dalla sua oratoria, rifiutò l’onta della fuga. Preferì una morte dignitosa, accettando il ruolo che il destino gli aveva assegnato.
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Grandi Filosofi...
LORENZO VALLA. (Roma 1405 - 1457)
Lorenzo Valla non fu un grande filosofo, anche perché nel XV secolo non ci furono grandi filosofi, merita comunque di essere ricordato come il gran sognatore di una rinascita della cultura classica, dissoltasi nel medioevo. Nel 1431 ottenne la cattedra di retorica presso l’università di Pavia, dove compose il “De voluptate” opera accolta con favore nell’ambiente universitario, dove la “voluptas”, animava la goliardia compresi molti docenti dediti a frequentare cenacoli non esattamente sempre spirituali. Valla, entusiasmato dal successo, per riscaldare l’atmosfera ebbe la pessima idea di criticare, con un opuscolo “De insignis et armis” la potente corporazione dei giuristi, che ovviamente si sentirono gravemente offesi dal tono sarcastico con il quale un semplice docente di retorica osava deridere la loro ben più lucrosa disciplina. Inutile dire che Valla fu costretto a lasciare la cattedra e andarsene da Pavia, nel 1435. Sul finire di quello stesso anno, grazie ad amicizie altolocate, riuscì a infilarsi nella segreteria di Alfonso V d’Aragona, che farà di Napoli un vivace centro culturale.
Valla, si scatenò in polemiche che altrove lo avrebbero portato sicuramente al rogo, mancando poco che accusasse Agostino di eresia. Dimostrò con serrate argomentazioni, che la famosa donazione di Costantino era una truffa e dunque contestò, in linea di fatto e di diritto, il potere temporale della chiesa. Per lui, intercedette Alfonso V, che dopo aver strappato agli angioini il regno di Napoli, (1442) riunendolo con quelli di Sicilia e Sardegna, aveva pattuito un patto di non belligeranza con il papa Eugenio IV. Il nuovo clima politico non giovò a Valla, che avendo negato che il “Credo” fosse stato redatto dagli apostoli, fu trascinato davanti all’inquisizione. Ancora una volta per lui, arrivò il soccorso di Alfonso V, e se la cavò con una semplice penitenza. La fortuna sua, fu che dopo Eugenio IV, fu eletto papa Nicolò V, che cercherà di adattare il pontificato all’umanesimo, riunendo intorno a sé, stuoli di letterati e artisti, con i quali discuteva di poesia latina e filosofia greca. Spenderà grandi somme, per ridare l’antico splendore alla città di Roma, prelevandole, senza misericordia, dalle tasche del popolo. Fonderà la Biblioteca Vaticana e approverà il progetto architettonico di Leon Battista Alberti per la costruzione di una nuova basilica di S. Pietro e la totale trasformazione del Vaticano. Grazie a questo pontefice, Valla poté abbandonare l’ingrato mestiere dell’intellettuale cortigiano. Nel 1448, ottenne la nomina di segretario apostolico e di direttore della Biblioteca Vaticana.
Scomparso Nicolò V, il suo successore, papa Callisto III, si dimostrerà poco propenso a concedere regalie a estranei e, infatti, nominò cardinale il nipote Rodrigo Borgia, il futuro papa Alessandro VI, ma continuò, tuttavia a erogare sussidi a Lorenzo Valla, che munito dei conforti religiosi, morì nell’agosto del 1457.
Un suo trattato, redatto nel 1449, nel quale rivendicava il diritto per chiunque di sottoporre a esame critico, esclusivamente filologico, le Sacre Scritture, sarà messo all’indice dal 19° Concilio Ecumenico di Trento (1545-1563).
Valla, si scatenò in polemiche che altrove lo avrebbero portato sicuramente al rogo, mancando poco che accusasse Agostino di eresia. Dimostrò con serrate argomentazioni, che la famosa donazione di Costantino era una truffa e dunque contestò, in linea di fatto e di diritto, il potere temporale della chiesa. Per lui, intercedette Alfonso V, che dopo aver strappato agli angioini il regno di Napoli, (1442) riunendolo con quelli di Sicilia e Sardegna, aveva pattuito un patto di non belligeranza con il papa Eugenio IV. Il nuovo clima politico non giovò a Valla, che avendo negato che il “Credo” fosse stato redatto dagli apostoli, fu trascinato davanti all’inquisizione. Ancora una volta per lui, arrivò il soccorso di Alfonso V, e se la cavò con una semplice penitenza. La fortuna sua, fu che dopo Eugenio IV, fu eletto papa Nicolò V, che cercherà di adattare il pontificato all’umanesimo, riunendo intorno a sé, stuoli di letterati e artisti, con i quali discuteva di poesia latina e filosofia greca. Spenderà grandi somme, per ridare l’antico splendore alla città di Roma, prelevandole, senza misericordia, dalle tasche del popolo. Fonderà la Biblioteca Vaticana e approverà il progetto architettonico di Leon Battista Alberti per la costruzione di una nuova basilica di S. Pietro e la totale trasformazione del Vaticano. Grazie a questo pontefice, Valla poté abbandonare l’ingrato mestiere dell’intellettuale cortigiano. Nel 1448, ottenne la nomina di segretario apostolico e di direttore della Biblioteca Vaticana.
Scomparso Nicolò V, il suo successore, papa Callisto III, si dimostrerà poco propenso a concedere regalie a estranei e, infatti, nominò cardinale il nipote Rodrigo Borgia, il futuro papa Alessandro VI, ma continuò, tuttavia a erogare sussidi a Lorenzo Valla, che munito dei conforti religiosi, morì nell’agosto del 1457.
Un suo trattato, redatto nel 1449, nel quale rivendicava il diritto per chiunque di sottoporre a esame critico, esclusivamente filologico, le Sacre Scritture, sarà messo all’indice dal 19° Concilio Ecumenico di Trento (1545-1563).
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