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SHANGRI-LA
Dalla fine del settecento in poi gli scenari grandiosi e spirituali del Tibet hanno colpito l’immaginazione occidentale, specialmente dopo i resoconti di un funzionario delle Compagnie delle Indie Orientali, il primo europeo a entrarvi.
I sui racconti descrissero il mito di un Oriente fuori dal tempo, dedito ai lavori della pace e della spiritualità, confermato dagli esploratori che ne seguirono i passi.
Il nome Shangri-La, è probabilmente la storpiatura di Shambala, che, nell’immaginario dei popoli tibetani e himalayani era identificata con una sorta di paradiso perduto, nascosto tra le montagne che si snodano per migliaia di chilometri dal Pakistan alla Cina.
Lo scrittore James Hilton creò il sogno di Shangri-La, negli anni trenta del novecento, in un romanzo: “ Il Paradiso perduto”, che divenne un best seller e, più tardi, nel 1937, un film.
Diversi racconti leggendari raccontano della scoperta di un luogo denominato Beyul Khenbalung, ovvero la valle segreta dell’Artemisia, localizzata nel Buthan, così chiamata dalla pianta aromatica e curativa che vi cresce abbondante.
Il carattere paradisiaco delle cosiddette “valli nascoste”, spazi naturali incastonati nel paesaggio, con corsi d’acqua e di pascoli sempreverdi, persino nei rigidi inverni Himalayani, ha generato elevati incantamenti riconosciuti dai primi esploratori della regione.
Dalle loro descrizioni colme di stupore si legge, nei resoconti rilasciati al ritorno, di “ meravigliose camminate attraverso la foresta, con i raggi del sole che brillavano sul verde scuro delle foglie dei rododendri. Nel sottobosco una intensa fioritura di rose selvatiche, cespugli con corolle di bacche scarlatte, bambù, betulle, salici; pascoli pennellati di genziane e di ogni varietà di fiori alpini che s’inerpicano fino a i limiti dei ghiacciai”. Veramente racconti pieni di meraviglia genuina.
Oltre alle bellezze naturali si trovano mistici recessi, spesso accessibili solo attraverso impervi valichi, che da secoli avevano ispirato tradizioni e leggende. Si riteneva, per esempio, che le vie di accesso fossero state aperte grazie ai poteri magici di mistici monaci.
Shangri-La. Dove la storia e il mito si intrecciano.
I sui racconti descrissero il mito di un Oriente fuori dal tempo, dedito ai lavori della pace e della spiritualità, confermato dagli esploratori che ne seguirono i passi.
Il nome Shangri-La, è probabilmente la storpiatura di Shambala, che, nell’immaginario dei popoli tibetani e himalayani era identificata con una sorta di paradiso perduto, nascosto tra le montagne che si snodano per migliaia di chilometri dal Pakistan alla Cina.
Lo scrittore James Hilton creò il sogno di Shangri-La, negli anni trenta del novecento, in un romanzo: “ Il Paradiso perduto”, che divenne un best seller e, più tardi, nel 1937, un film.
Diversi racconti leggendari raccontano della scoperta di un luogo denominato Beyul Khenbalung, ovvero la valle segreta dell’Artemisia, localizzata nel Buthan, così chiamata dalla pianta aromatica e curativa che vi cresce abbondante.
Il carattere paradisiaco delle cosiddette “valli nascoste”, spazi naturali incastonati nel paesaggio, con corsi d’acqua e di pascoli sempreverdi, persino nei rigidi inverni Himalayani, ha generato elevati incantamenti riconosciuti dai primi esploratori della regione.
Dalle loro descrizioni colme di stupore si legge, nei resoconti rilasciati al ritorno, di “ meravigliose camminate attraverso la foresta, con i raggi del sole che brillavano sul verde scuro delle foglie dei rododendri. Nel sottobosco una intensa fioritura di rose selvatiche, cespugli con corolle di bacche scarlatte, bambù, betulle, salici; pascoli pennellati di genziane e di ogni varietà di fiori alpini che s’inerpicano fino a i limiti dei ghiacciai”. Veramente racconti pieni di meraviglia genuina.
Oltre alle bellezze naturali si trovano mistici recessi, spesso accessibili solo attraverso impervi valichi, che da secoli avevano ispirato tradizioni e leggende. Si riteneva, per esempio, che le vie di accesso fossero state aperte grazie ai poteri magici di mistici monaci.
Shangri-La. Dove la storia e il mito si intrecciano.
annali- Senior
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DIARIO DI SCUOLA - DANIEL PENNAC
"Il tempo di leggere, come il tempo per amare
dilata il tempo per vivere".
Daniel Pennac
Questo suo diario scolastico Pennac lo inizia così: “ Cera una volta uno studente somaro che andava malissimo a scuola e non imparava mai niente…”.
Quel ragazzo era Daniel Pennac stesso, che nel suo diario scrive:
“Ogni sera della mia infanzia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l’ultimo della classe, ero il penultimo”.
Proseguendo, incontra docenti che intuendo le sue capacità creative, accettano che lui si esprima anche non seguendo tutto quanto i programmi scolastici richiedono di eseguire.
Pennac tesse un elogio della duttilità del docente, professionista dotato di cultura, conoscenze e sensibilità nel riconoscere il complicato materiale umano sul quale si trova a lavorare.
È l’elogio dedicato alla professione docente, nonostante oggi non goda dello stesso prestigio sociale del tempo passato.
“Ho sempre incoraggiato i miei amici e i miei allievi più brillanti a diventare insegnanti. Ho sempre pensato che la scuola fosse fatta prima di tutto dagli insegnanti. In fondo, chi mi ha salvato dalla scuola se non tre o quattro insegnanti?”.
Dal romanzo di memorie (di lui, prima come studente e poi come professore) passa al saggio narrativo ricco di spunti di riflessione sull’insegnamento, con un’aperta nostalgia per cose che la scuola di oggi molto spesso mette in archivio. Come, ad esempio, l’imparare le poesie a memoria: “E perché non imparare questi testi a memoria? In nome di che cosa non appropriarsi della letteratura? Forse perché ce ne manca il tempo? Vorremmo lasciare volar via pagine simili come foglie morte solo perché non è più stagione? È davvero auspicabile non trattenere simili incontri? Se questi testi fossero persone, se queste pagine eccezionali avessero volti, dimensioni, una voce, un sorriso, un profumo, non passeremmo il resto della vita a morderci le mani per averli lasciati scappare via?”
Quel ragazzo era Daniel Pennac stesso, che nel suo diario scrive:
“Ogni sera della mia infanzia tornavo a casa perseguitato dalla scuola. I miei voti sul diario dicevano la riprovazione dei miei maestri. Quando non ero l’ultimo della classe, ero il penultimo”.
Proseguendo, incontra docenti che intuendo le sue capacità creative, accettano che lui si esprima anche non seguendo tutto quanto i programmi scolastici richiedono di eseguire.
Pennac tesse un elogio della duttilità del docente, professionista dotato di cultura, conoscenze e sensibilità nel riconoscere il complicato materiale umano sul quale si trova a lavorare.
È l’elogio dedicato alla professione docente, nonostante oggi non goda dello stesso prestigio sociale del tempo passato.
“Ho sempre incoraggiato i miei amici e i miei allievi più brillanti a diventare insegnanti. Ho sempre pensato che la scuola fosse fatta prima di tutto dagli insegnanti. In fondo, chi mi ha salvato dalla scuola se non tre o quattro insegnanti?”.
Dal romanzo di memorie (di lui, prima come studente e poi come professore) passa al saggio narrativo ricco di spunti di riflessione sull’insegnamento, con un’aperta nostalgia per cose che la scuola di oggi molto spesso mette in archivio. Come, ad esempio, l’imparare le poesie a memoria: “E perché non imparare questi testi a memoria? In nome di che cosa non appropriarsi della letteratura? Forse perché ce ne manca il tempo? Vorremmo lasciare volar via pagine simili come foglie morte solo perché non è più stagione? È davvero auspicabile non trattenere simili incontri? Se questi testi fossero persone, se queste pagine eccezionali avessero volti, dimensioni, una voce, un sorriso, un profumo, non passeremmo il resto della vita a morderci le mani per averli lasciati scappare via?”
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IL REGNO DEI GUFI - MARTIN HOCKE
Questo è uno dei volumi che fa parte di una trilogia ormai introvabile, dunque ritengo sia stato un vero colpo di fortuna esserne venuta in possesso per puro caso. L'avvincente saga, scritta da Martin Hocke, uno dei maggiori scrittori di fantasy britannici, è una magica unione di fiaba e leggenda, di avventura e idillio, pervasa da un profondo amore per la natura. Vi è descritto l’incanto dei sentimenti a cui muovono le creature di mondi diversi, in questo caso, il mondo dei gufi dei granai.
Un mondo, il loro, minacciato dalle improvvise gelate invernali, dalla natura non sempre amica, con l’affannosa giornaliera ricerca del cibo. Un mondo bello e terribile a un tempo, un misto di amore, di guerre e di eroismo, vissuto nella costante paura dell’ignoto, ai confini di un regno perduto, un territorio proibito dove nessun gufo è mai volato.
Mi è valsa la pena averla riletta, con commozione leggendo specialmente le ultime pagine, dove si spegne la vita del coraggioso giovane gufo Hunter, che ha combattuto in difesa della comunità dei gufi, minacciata prima da un gigantesco Gufo Reale, poi dal fucile dell'uomo.
“Poi la terra si sollevò sotto il suo corpo morente, il cielo sopra di lui si svuotò e invece della luna e delle stelle Hunter vide tutti gli altri gufi che aveva conosciuti, in un improvviso lampo di agonia.
Fu preso da una tristezza penetrante, unita alla certezza che in questo mondo non si sarebbero più incontrati: che cosa sarebbe capitato a quelli ancora in vita e cos’era accaduto a quelli che erano morti da tanto tempo?
In quell’ultima commovente visione, vide che l’unica cosa che avevano in comune, tutti quei gufi, era il fatto che lui li avesse conosciuti e ricordati. Il fatto che quel microcosmo sarebbe morto con lui lo rese molto più triste del pensiero stesso della fine, che si stava rapidamente avvicinando.
Proprio alla fine gli ultimi pensieri furono per l’idillio che aveva vissuto con la piccola Alba, il suo primo amore del regno perduto.
Morì con la profonda convinzione che potessero ancora incontrarsi nel luogo in cui stava andando, così infinitamente al di sopra delle alte montagne, al di là della luna e delle stelle.
Era stata una vita dura: aveva conosciuto dolore guerre e sofferenze, ma anche una grande felicità. Perciò era giusto che i suoi pensieri sulla Terra fossero di fede e di speranza. Sperò in un futuro più pulito per la sua specie e per sé, giunto alla fine, sperò in una pace profonda e eterna”.
Un mondo, il loro, minacciato dalle improvvise gelate invernali, dalla natura non sempre amica, con l’affannosa giornaliera ricerca del cibo. Un mondo bello e terribile a un tempo, un misto di amore, di guerre e di eroismo, vissuto nella costante paura dell’ignoto, ai confini di un regno perduto, un territorio proibito dove nessun gufo è mai volato.
Mi è valsa la pena averla riletta, con commozione leggendo specialmente le ultime pagine, dove si spegne la vita del coraggioso giovane gufo Hunter, che ha combattuto in difesa della comunità dei gufi, minacciata prima da un gigantesco Gufo Reale, poi dal fucile dell'uomo.
“Poi la terra si sollevò sotto il suo corpo morente, il cielo sopra di lui si svuotò e invece della luna e delle stelle Hunter vide tutti gli altri gufi che aveva conosciuti, in un improvviso lampo di agonia.
Fu preso da una tristezza penetrante, unita alla certezza che in questo mondo non si sarebbero più incontrati: che cosa sarebbe capitato a quelli ancora in vita e cos’era accaduto a quelli che erano morti da tanto tempo?
In quell’ultima commovente visione, vide che l’unica cosa che avevano in comune, tutti quei gufi, era il fatto che lui li avesse conosciuti e ricordati. Il fatto che quel microcosmo sarebbe morto con lui lo rese molto più triste del pensiero stesso della fine, che si stava rapidamente avvicinando.
Proprio alla fine gli ultimi pensieri furono per l’idillio che aveva vissuto con la piccola Alba, il suo primo amore del regno perduto.
Morì con la profonda convinzione che potessero ancora incontrarsi nel luogo in cui stava andando, così infinitamente al di sopra delle alte montagne, al di là della luna e delle stelle.
Era stata una vita dura: aveva conosciuto dolore guerre e sofferenze, ma anche una grande felicità. Perciò era giusto che i suoi pensieri sulla Terra fossero di fede e di speranza. Sperò in un futuro più pulito per la sua specie e per sé, giunto alla fine, sperò in una pace profonda e eterna”.
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